THE CIVIL WAR, John Ford, 1962
da Toni D’Angela
L’erotismo dei bordi
- Ti piaceva il Cinerama in How the West Was Won?
- È peggio del Cinemascope,
perché la parti estreme delle inquadrature si arrotolano,
ed è il pubblico che si sposta, invece della scena.
Ci si deve tenere stretti alle sedie.
Non mi interessava per niente.
Peter Bogdanovich e John Ford
The Civil War (La guerra civile, 1962, colore, 15 minuti) è l’episodio centrale di How the West Was Won (gli altri due episodi di questo cliff hangers, molto più lunghi, sono di Henry Hathaway e George Marshall). Scritto da James D. Webb (che per la sceneggiatura del film ricevette un Oscar) ed è anche di gran lunga il più notevole dei tre episodi. The Civil War chiude la “Trilogia di Lincoln”, il cui personaggio (l’attore è quel Raymond Massey già interprete del Lincoln di John Cromwell, oltre che di The Hurricane) apre l’episodio: The Iron Horse e Young Mr. Lincoln[1] (sebbene Lincoln compaia anche in altri film fordiani) sono gli altri due capitoli di questo dramma storico che con la “Trilogia della Cavalleria” costituisce la parte più profondamente nazionale dell’opera di Ford.
Il regista aveva già narrato e mostrato lo strazio di una battaglia della Guerra civile, quella di Newton in The Horse Soldiers, ma in The Civil War la battaglia di Shiloh, nella messa in scena, è ancora più truculenta: è una violenza allucinante e spettrale. La tavolozza dei colori caldi della campagna, della fattoria, del quadro bucolico in cui è cresciuto Zeb Rawlings (George Peppard), viene divorata in una rapida dissolvenza incrociata dal buio della notte di fuoco, dal bianco fumo di morte dei cannoni e dal rosso sangue che tinge di rosato il torrente d’acqua. La guerra ha invaso l’Ovest e ha impregnato della sua violenza non solo gli uomini ma anche gli elementi della natura.
Ma solo pochi istanti prima, nella luce della campagna, Zeb saltava di gioia, abbandonando l’aratro e confinando nel controcampo oscuro la madre (Carroll Baker) straziata dal dolore, anche se compostamente (« Lo strazio era raddolcito in turbamento »[2]), per la decisione di Zeb sollecitato dal caporale Peterson (Andy Devine) di arruolarsi volontario, dopo che già il marito era partito volontario. Sogna l’avventura e la gloria. Zeb sogna di ripetere le res gestae del padre (interpretato da un James Stewart selvatico, ma che non compare nell’episodio di Ford, bensì in quello di Hathaway).
“Non mi raccapezzo più. Non è quello che mi aspettavo e non c’è niente di glorioso a vedere un uomo con le budella fuori”, confida sconvolto ad un compagno di sventura, un sudista (Russ Tamblyn) con cui, nonostante la pianificazione (supposta) razionale della guerra, si ritrova inaspettatamente, cioè in virtù del caos, a condividere una porzione di terra: un Faccia a faccia che scaturisce la decisione di disertare insieme, tutti e due, di attraversare il torrente di sangue. Il volto di Zeb, sconvolto e allucinato, rapprende su di sé, nelle sue pieghe di sconcerto e orrore, quasi fosse un correlativo oggettivo o una lastra che riflette, tutta la lurida furia e tutta l’inaccettabile follia della guerra.
Anche i generali Sherman (John Wayne[3]) e Grant (Henry Morgan) sono sporchi e pesti, anonimi e irriconoscibili (Grant allude anche ai suoi problemi con l’alcol[4]): un soldato che trasporta un morto, anch’egli anonimo (è il padre di Zeb), sulla barella urta Grant, il comandante in capo delle forze armate, e non solo non lo riconosce, ma, addirittura, lo rimprovera, e Grant si scusa. La guerra è solo una sporca faccenda.
Zeb ritorna a casa, dopo aver salvato Grant ammazzando il compagno di fuga che, anziché uscire dalla Storia e disertare ha ceduto alla tentazione di rientrare nella Storia dalla porta principale provando ad uccidere il generale yankee. Zeb ritorna per salutare la vecchia madre, ma, al suo ritorno, troverà solo la sua lapide: il suo è un romanzo di formazione che si sviluppa nell’interstizio tra l’andata e il ritorno di questo viaggio.
L’epilogo di questo breve episodio, racchiude delle inquadrature splendide e lunghe, distensive, le più belle del film, che riconciliano l’occhio dello spettatore dopo l’orrore di Shiloh. Pianisequenza fissi, lenti e fenomenologici, in cui il tempo trascorre e respira come il vento, che soffia e fa vibrare il verde degli alberi e del prato. Inquadrature tranquille, riflessive e coscienziose, come quella della conversazione in riva al fiume fra Guthrie McCabe e Jim Gary in Two Rode Together. È lo sguardo di Ford che ha ri-guardo per paesaggi e uomini, situazioni e sentimenti, nonostante i disturbi tecnici causati dal formato in Cinerama (sezionato in un triplice schermo): la non continuità delle riprese, il salto di luce fra le due riprese laterali e quella centrale. Ford non gradiva affatto questo formato, ma « ciò che conta è sempre l’autore, che del mezzo tecnico fa un mezzo espressivo »[5]. E, infatti, nota Adriano Aprà[6], di per sé l’allargamento dell’area visiva non è squalificante lo stile di un autore, perché lo spazio è « un mezzo espressivo » e « il suo allargamento equivale a un arricchimento dei rapporti spaziali » - anche perché lo spazio più che un mezzo o una proprietà delle cose è la forma, l’esposizione, in cui tutte le cose si inscrivono nel loro fenomenizzarsi[7] - basti pensare all’uso che Raoul Walsh fa del Cinemascope in Battle Cry (Prima dell’uragano, 1955) in cui inquadra orizzontalmente, nella succesione psico-topografica, tutto il pieno dell’azione, messo a fuoco nel dipanarsi del caos violento delle battaglie e nello sviluppo delle piccole avventure e disavventure d’amore dei Marines, nel pluralismo delle forze che agiscono e reagiscono le une sulle altre, in una costellazione di connessioni di rapporti. Tuttavia, secondo Aprà, se l’allargamento riguarda solo i margini, come nel Cinerama, e non la profondità di campo, « il risultato sarà solo suggestivo più che espressivo ». Nondimeno, nonostante il disinteresse di Ford e il giudizio critico di Aprà, proprio questa è la forza delle ultime inquadrature senza stacchi, in particolare quella dell’incontro dei due fratelli (che dura una cinquantina di secondi) e quella della conversazione dei due fratelli sotto la veranda che chiude l’episodio (che, invece, ha una durata di due minuti circa). Inquadrature lunghe e di respiro, ma niente affatto prolisse. Non contrastano, stonando, con la precedente visione « così secca e sintetica »[8]. Solo che c’è un’altra storia da raccontare attraverso le immagini, una storia che ha un altro profilo, un’altra densità e un’altra temporalità e che, come già nel secondo flashback e negli sguardi sospesi di Hallie e Link in Liberty Valance, non è quella della Storia (della Guerra civile o della Conquista del West): così si spiega la scelta della differenza, della diversità di trattamento filmico tra storia e Storia.
La profondità di campo, il vento che soffia e il verde che brilla, i volumi della natura, tutto questo non manca nella prima di queste inquadrature lunghe (come non mancava nel lontano Straight Shooting). È lo sfondo da cui staccano i due personaggi e prendono senso le loro parole: la formula di Ford che, ostile o accogliente, lo spazio non lo sacrifica mai. Anzi, nelle sue inquadrature, lunghe o profonde, il paesaggio pesa sulla presenza dei personaggi e ne ha rispetto anche perché quello spazio amorfo, asimmettrico e amorale (la Wilderness della Monument Valley o della foresta di Drums Along the Mohawk) è la profondità dello spazio avvolgente che, morti entrambi i genitori, conforta e accoglie i due fratelli. Profondità che non manca neppure nell’ultima inquadratura (nella conversazione sotto la veranda) stupefacente e straubiana (rinvia, come Two Rode Togheter, ad alcuni scene-sculture di dialoghi dei personaggi di Dalla nube alla resistenza, 1979, e di Der Tod des Empedokles, 1987, di Straub-Huillet). La profondità della finestra (di luce) visibile (come spesso in Ford) all’interno buio della casa, nel centro dell’inquadratura, e, soprattutto, la profondità infinita che si apre al lato dell’immagine, sulla destra, ai margini, lungo i bordi. Quello di destra e, infine, anche quello di sinistra, quando Zeb si alza per allontanarsi di casa e non ritornare più, per uscire dall’inquadratura che lo accompagna con il movimento di macchina, proiettando Zeb lungo l’apertura dell’infinito, fuori, nel fuori campo dell’avventura.
Questa è la forza, perché questi bordi - come nei décadrages di Dalla nube alla resistenza[9] o nel cinema decentrato di Michelangelo Antonioni[10] - grazie al genio di Ford e non al Cinerama, sbordano e slargano non solo il campo percettivo, ma lo spazio, l’orizzonte di senso dei personaggi, in particolare di Zeb (non che quello del fratello sia circoscritto). Ford erotizza i bordi accentuando i limiti dell’immagine e sviluppando i rapporti tra campo e fuori campo, trattandoli all’interno dell’« erotizzazione dei bordi dell’inquadratura » e « dell’inquadratura considerata come zona erogena », di cui parla Serge Daney[11]. Il regista li lavora fino a schiuderli e a farne delle aperture, delle fessure centrifughe rispetto alla centratura dell’immagine, gravità centrata della fattoria o dell’aratro, cioè di uno stile di vita dal quale Zeb vuole fuggire per liberare la sua vettorialità, un oggetto che non esiste ancora (il sogno, la libertà, lo spirito d’avventura), materializzare un’emozione e, al tempo stesso, liberare il gioco di entrate e uscite, anche di noi spettatori, la nostra arte, la visione e l’immaginario, perché « fruttuoso è solo ciò che lascia libero gioco alla fantasia. Quanto più vediamo, tanto più dobbiamo poter aggiungere con l’immaginazione. E quanto più immaginiamo, tanto più dobbiamo credere di vedere »[12]: un‘arte nell’Arte. « Tutto un cinema »[13]. Il nostro.
Note:
[1] Anche se Lincoln appare in altri film di Ford, come The Prisoner of Shark Island, senza avere la funzione diegetica dei film che compongono quella che ho chiamato trilogia lincolniana.
[2] Gotthold Lessing, Laocoonte, cit., p. 42.
[3] John Wayne compare in un piccolo ruolo, come gli era capitato in altre occasioni per produzioni televisive di Ford, tra cui The Colter Craven Story (t.l.: La storia di Colter Craven, 1960), un episodio della serie televisiva Wagon Train ispirata da un film di Ford, Wagon Master. È la storia della redenzione di un medico che dopo la battaglia di Shiloh, quella di The Civil War, è caduto nell’alcolismo; il medico è scosso e persuaso a ritornare ad operare, come Doc Holliday in My Darlig Clementine.
[4] Ford racconta a Bogdanovich che avrebbe sempre voluto fare un documentario sul generale Grant (che compare anche in The Horse Soldiers e Cheyenne Autumn), una grande storia americana che ispira anche il medico di The Colter Carven Story (ufficiale alcolizzato che compie un urgente intervento chirurgico, diventa generale e infine presidente degli Stati Uniti) ma: « non lo si può fare. Non lo si può ritrarre come un ubriacone, buttato fuori dall’esercito ». Cfr. John Ford citato in Peter Bogdanovich, Il cinema secondo John Ford, cit., p. 182.
[5] Adriano Aprà, Stelle & strisce, cit., p. 85 (la recensione pubblicata su « Filmcritica » di The Civil War è del 1963).
[6] Ivi, p. 84.
[7] « Lo spazio va pertanto considerato come la condizione di possibilità dei fenomeni e non come una determinazione da essi dipendente ». Cfr. Immanuel Kant, Critica della Ragion pura, Torino, Utet, 2005, pp. 100-101.
[8] Adriano Aprà, Stelle & strisce, cit., p. 85.
[9] Cfr. Paolo Spaziani, Dalla nube alla resistenza. Etica ed estetica di un film Straub-Huillet, Roma, UCCA-Mauro Baroni Editore, 2000, pp. 139-141.
[10] Beninteso, nonostante queste fughe, quello di Ford rimane splendidamente una logica della centratura. Quello di Ford, non è un décadrage bensì solo una decentratura che non esclude mai personaggi e che, anzi, infine li riporta al centro, secondo una logica della centratura. « È certo che con Antonioni e Straub, due maestri del décadrage, si ha subito la sensazione di un sistema formale che viene a contrapporsi al sistema classico, al sistema della centratura, e anche alla sua trasparenza » ma soprattutto il décadrage, che non è solo decentratura, perché « trasforma l’equilibrio classico tra le funzioni della cornice: infatti l’ipotetica e sempre fragile presenza dei personaggi conta meno del carattere attivo, tagliente, marcato di quel bordo ». Cfr. Jacques Aumont, L’occhio interminabile, Venezia, Marsilio, 1991, pp. 89, 91.
[11] Serge Daney, Cinéjournal, cit., p. 72.
[12] Gotthold Lessing, Laocoonte, cit., p. 50.
[13] Serge Daney, Cinéjournal, cit., p. 72.
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