LA BIFORCAZIONE DEL DESIDERIO da Toni D’Angela
Oh, please let me come into the storm.
Leonard Cohen
La storia che James Gray racconta, con intensità e calibro, è una anabasi, una ritirata, un ritorno a casa - come già in Little Odessa (1994), The Yards (2000) e I padroni della notte (2007).
Leonard (Joaquin Phoenix: sospeso fra The Village e Walk the Line, stupefacente) è smarrito, spaesato, fuori luogo, reduce dalla più tremenda delle sconfitte: la donna amata l’ha abbandonato. Fin dall’incipit è, insieme, alla deriva e impegnato a risalire - dall’acqua della baia livida (come la città) dove si è gettato, abbandonandosi come fosse un rifiuto, una pietra, un gas. Lasciandosi cadere, crollare dentro. Errante: cammina molto, per consegnare i capi lavati e stirati del padre lavandaio (e già disciplinato); Leonard medita, fantastica, assaggia ancora una volta il gelo dell’acqua dove tutto prende forma e si dissolve. È imbarcato e prende acqua dappertutto - c’è pioggia nel racconto e non c’è mai il sole. Sulla soglia, tra la fine e il principio, le désir e il dispositivo di controllo, la voragine che inghiotte nel suicidio e il ritorno a casa, finalmente sed(iment)ato, inserito, collocato, accomodato sulla poltrona, incastrato e fermo, fra genitori e suoceri, abbracciando, a sguardo spento (o forse solo precario?) la futura moglie - come anticipata dall’immagine mesta e funerea di una Isabella Rossellini (madre di Leonard), anonima e appesa per il collo da antiche delusioni - peraltro solo alluse nei suoi sguardi anemici - chinata sotto la feritoia della porta della stanza del figlio, in attesa di responsi, eventi, fibrillazioni: cuore di mamma - che sostituisce quello, ormai pietrificato, di donna e amante.
Ma, dal fondo di una poltrona dorata (le famiglie di Leonard e della sua promessa sposa si apprestano alla fusione delle rispettive aziende), l’errante davvero risale e ricomincia? E a quale inizio si apre o viene destinato? A quale esilio? “Quello che distingue le persone le une dalle altre è la forza di farcela, o di lasciare che sia il destino a farla a noi” (cfr. F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 27).
Anziché risalire inventando il suo destino, la sua marcia, come i greci sconfitti in Asia, il suo ritorno, Leonard l’ha subito, lasciando scoperto l’Insolcato. Il Controllo stritola, nella figura del Super-Io genitoriale onnipresente e onnivoro: i genitori della prima donna perduta hanno deciso la fine della relazione, i genitori delle due amanti, Sandra (Vinessa Shaw) e Michelle (Gwyneth Paltrow), o complottano o urlano, infine, perfino l’amante ufficiale di Michelle, l’avvocato di successo (Elias Koteas), per subordinarlo, fa valere il suo ruolo di padre nell’unico incontro con Leonard. Super-Io che esemplarmente e spettralmente, si incarna, agglutina e prende corpo nella parete del soggiorno della casa dei genitori di Leonard: una galleria di ritratti di famiglia che, come un vortice, capta e risucchia il giovane desperado. Una banalità di base, un complotto che tutto strozza, sotto la sopraelevata di una città anonima (Brighton Beach, Coney Island: già scenario di Little Odessa, l’esordio di Gray realizzato nel 1994, e di Requiem for a Dream di Aronofsky), periferica, marginale, che non pulsa né parla. Leonard è chiuso in una casetta alla periferia di qualcosa...
Eppure gli spazi, nel racconto di Gray, svolgono una determinante funzione narrativa, modellano il senso del testo: dell’incrocio di forze (personaggi) che, a sua volta, diventa personaggio. Uno spazio-testo dispiegato e dislocato nelle componenti del décor in cui scorre la durata, sia quella interiore di Leonard che quella interna al film. La stanza, la terrazza, il cortile: sono gli orizzonti di senso in cui Gray fa la sua tessitura costruendo Two Lovers come una topologia. Nella risalita, Leonard incontra prima Sandra e dopo Michelle, due amanti, una mora e l’altra bionda, una accomodante e l’altra tormentata, una vicina e l’altra lontana. Nel suo va e vieni fra una e l’altra, Leonard sperimenta le stazioni, i luoghi, dove l’una e l’altra appaiono e si manifestano, e, di volta in volta, lo chiamano a loro. Sandra è la medietà. Pulita e semplice, capelli che cascano sulle spalle senza divagare, Sandra è sempre in interni: in casa dei genitori di Leonard o nella sua stanza, dentro un bar, nella sala in cui si festeggia il compleanno del fratello. Sandra è sempre al riparo, in situazioni protette, domestiche, familiari: cene di famiglia o feste con parenti e amici, sempre, ovviamente, di famiglia. Angelo del focolare? Sebbene la fiamma sembri già spenta, in una dialettica senza sintesi e fantasmatica, alimenta, comunque, il desiderio. Leonard, con lei, è a casa e, insieme, scivola in fondo alla poltrona, prende posto, accanto alla donna che sa aspettare.
Michelle è lunatica, fragile, oggetto di voyeurismo, si muove fra gli estremi e gli stordimenti: droga, discoteca, aborto. Con lei, Leonard cammina per strada, è esposto alle intemperie, alla pioggia (quando la porta in ospedale) e soprattutto al vento, in particolare nella scena dell’amplesso sul terrazzo hitchcockiano, dove l’intensità si esprime grazie al sonoro, al vento che soffia, sibila, stride, picchia, grida - e già gela. Con lei, Leonard è, al tempo stesso, in attesa e fuori di sé, lontano da casa, pronto per partire alla volta di San Francisco e disattendere, così, le macchinazioni genitoriali. Anche quando Leonard e Michelle si trovano in camera e parlano fra loro a distanza, questa subito la consumano: mossi da sogni o disinvoltura, si avventano sulla finestra, sospesi sul cortile del desiderio che dà sull’inizio delle stelle. Con lei Leonard sperimenta pure gli alti e i bassi. Con Sandra fa l’amore sotto le coperte, nel letto della sua stanza, al piano medio; con Michelle sulla terrazza, mentre di sotto - altro estremo - nel cortile desolato e notturno, la stessa Michelle (ma non l’uguale: diversa e captata in altra fascinazione?) l’abbandona.
Due donne, due amanti, due spazialità, e, al di là delle caratterizzazioni psico-logiche (incluse le mie), due immagini mentali di Leonard, due forme del desiderio che, forse, rimandano all’altra donna, l’altra scena, che sono il farsi-movimento di una foto che brucia, la foto-ritratto della donna che l’ha lasciato la prima volta, o le foto sepolte nella scatola (come nel baule di The Village); che, nel fuori campo della memoria, rimanda ad altra cancellazione e perdita: Nostalgia di Hollis Frampton.
L’ambiente di queste due donne è doppio, come Leonard, differito in una bipolarità, un agostiniano voglio/non voglio: si butta in acqua per morire ma poi risale, si avvicina, nella notte, all’acqua ma poi (folgorato o ripiegato?) raccoglie sulla sabbia l’anello comprato per Michelle e lo regala a Sandra; in questo andirivieni tra fantasia e sentimento, che non risparmia nemmeno Michelle e la più salda Sandra che, infatti, si è innamorata di Leonard ancor prima di vederlo, sapendo la sua storia (il tentato suicidio), si è innamorata di una immagine, una fantasia. Come i customers segnalati all’inizio del film, altrettanto astratti: noi amiamo i nostri clienti, dice il motto della lavanderia. Noi amiamo i nostri fantasmi...
L’anabasi, pare, portare Leonard dall’intensità (il tuffo nella baia) alla identità: incorniciato nel ritratto, nell’interno del gruppo di famiglia. Ma, forse, l’autenticità, nel racconto affatto consolatorio o sistematico di Gray, sta nel mostrare il ritorno di Leonard, come un Unheimlich (inquietante) che altro non è, essenzialmente, se non l’Heimat (patria, dimora) dell’uomo. Certo, il viaggio di Leonard non è un allontanarsi dalle origini e, insieme, un riaffiorare, ritornare a casa, dopo il momento hegeliano della spaesatezza, per, infine, conciliarsi (il film mi sembra più sul côté Kierkegaard). Non è questa la storia del suo sottosuolo. Leonard, sintomaticamente, è destinato ad esser forestiero in patria, estraneo a se stesso, al suo ambiente, la sua casa? Godere del suo desiderio ma nella contraddizione, nello stato delle cose, che concatena le vie di fuga (l’intensità) con le coniugazioni (i matrimoni e i ritorni in famiglia).
James Gray non chiude, né condanna. Il suo film non è un’oggettivazione della soggettività di Leonard, non ne fa una cosa, un oggetto di studio, non fa il logico o il giudice: non fa il Genitore agente del capitale senza scrupoli (James Caan in The Yards) o poliziotto (Robert Duvall in I padroni della notte) o, ancora, adagiato nella vita legiferante, imprescindibile, monotona. L’esistenza sfugge alla logica, quella che, nel finale del film, come un baluardo che difende dalla vita, sceglie in vece del personaggio, e sembra imporsi... E con la madre, incapsulata nel ricordo di amori mai avuti, anche noi sentiamo, fino alle lacrime, tenerezza.
Gli hanno dato un desiderio (un guanto, una lontananza, un ricordo), un dono a Leonard; e desiderava pure abbracciarlo; ma, infine, Leonard ha preso polvere nella stanza e, chiuso fra gli scaffali, ha indossato il mondo che, incombente, lo guardava dalla parete del soggiorno; senza annerire (annegandosi), ma gelando, e dopo la bella tormenta di neve; forse, senza potersi più scaldare, se non, di nuovo, nella eterogenesi del desiderio e nella bipolarità costitutiva del racconto: due donne, due doni, due amplessi, due tentativi di suicidio, due ritorni a casa. E pure questa storia, d’altronde, dovrebbe, a questo punto, ricominciare o biforcarsi.
Penso a volte che non uscirò mai da questa Rua dos Douradores
Fernando Pessoa
VOLTAR
AO ÍNDICE
|