LA « VAMP » ossia « SEX-APPEAL » EUROPEO
Da quando, poco prima della guerra, i cinematografari americani cominciarono a vedere la produzione europea (ricordo Queen Elizabeth con la Bernhardt importato da Zukor), accanto ai rudi cowboys di William Selig ed ai poliziotti di Mack Sennett, accanto alle « ingenue » di cui Mary Pickford cominciava ad essere la leader, un altro personaggio fece la sua comparsa nel nascente olimpo hollywoodiano e vi conquistò solide posizioni. Era un essere nato per far soffrire, la cui sola vista accendeva il sangue, implacabile come il destino e misterioso come la Sfinge. Esteriormente si presentava con un fisico di prima qualità, dalle movenze feline, una ostinata tendenza ad aggrapparsi alle tende ed una abilità indiscussa nel lancio di occhiate assassine.
Si può affermare con una certa sicurezza che la figura della vamp ed in genere quelle impostate su problemi di carattere sessuale sono di importazione europea. Come vedremo in seguito il sex-appeal di marca americana presenta dei caratteri visibilmente diversi. I motivi che spinsero Hollywood a coltivare accuratamente questi personaggi esotici divennero più forti man mano che i mercati stranieri, in specie quelli europei, diventavano di sua quasi esclusiva proprietà. Anche il pubblico americano mostrava però un certo interesse, più di curiosità che altro, per questi professionisti del fascino straniero.
Il primo personaggio di questa categoria era tuttavia nato in terra d’America e si chiamava Theodosia Goodman. Siccome però nessun individuo che ammetta pubblicamente di chiamarsi Theodosia Goodman può aspirare a sedurre chicchessia, la femmina fascinosa che si agitava nel film A Fool There Was, passò alla storia come Theda Bara. Ad onor del vero bisogna ammettere che costei fu il solo caso veramente grave di vampirismo per dilettanti di cui si macchiò il cinema americano. Fra parentesi è da notare che dopo una Cleopatra veramente impagabile ed una Carmen, la Bara non esitò a dar vita cinematografica, credo per la prima volta, alla tenera figura di Giulietta.
Dopo di lei passarono alcuni anni prima che il sex-appeal europeo desse vita ad un personaggio che lo rappresentasse. Ma forse questi anni erano di preparazione ad uno degli eventi più memorabili della storia di Hollywood.
Il 6 maggio 1895 nacque a Castellaneta, in Basilicata, da Giovanni Guglielmi veterinario e da Maria Berta Gabriella Barbin, un bambino cui fu posto il nome di Rodolfo. L’infanzia del ragazzo fu simile a quella di tanti altri rampolli della nostra piccola borghesia meridionale. La morte del padre a 11 anni, le scuole tecniche, il Collegio della Sapienza a Perugia, un concorso per la Scuola Macchinisti di Venezia, perduto per una deficenza toracica di due centimetri. Esperienze di provincia. Vi era una intensa emigrazione in quegli anni, in Francia, nell’America del Sud, negli Stati Uniti. Braccia che cercavano lavoro, ambizioni che cercavano il successo. Rodolfo Guglielmi, diciannovenne, scese a Nuova York con un carico di emigranti. Aiuto giardiniere al Central Park, cameriere, avventizio in una officina d’automobili, danseur mondain specializzato in tanghi, forse gigolò. In una tournée nei teatri di varietà, in coppia con una certa Jean Acker, prese il nome di Rudolph Valentino. Hollywood. Lungo periodo come comparsa a cinque dollari, poi, I quattro cavalieri dell’Apocalisse. Mori di ulcera gastrica, dopo una difficile operazione nel suo appartamento all’Ambassador di New York all’età di 31 anni.
Con Valentino l’importanza che il divismo cinematografico stava assumendo nella civiltà contemporanea cominciò ad essere intuita anche dai più scettici. Era facile dire: « depravazione del gusto », « follia collettiva », ma il fatto è che cinquanta milioni di persone (secondo calcoli piuttosto moderati dei suoi corrispondenti epistolari e degli appartenenti ai suoi clubs, in enorme maggioranza donne) non possono avere completamente torto. Si potranno imputare a sovraeccitazione collettiva causata anche dalla ignobile campagna giornalistica, le scene grottesche e tragiche dei suoi ultimi momenti e dei suoi funerali; forse anche i casi di suicidio e di smarrimento improvviso della ragione verificatisi in più parti del globo, ma il fondo di questa sorprendente attrattiva non può essere liquidato con due parole.
Intendiamoci, egli fu un ottimo, seppur non grande attore, ed usufrui di una eccezionale campagna pubblicitaria ma è evidente a tutti che non è su questa strada che si potrà individuare quel « qualche cosa » che forma l’essenza del fenomeno Valentino. A me sembra che non basti nemmeno constatarne il fascino personale ed il « tipo », nuovo per il cinema di allora. È ancora poco per smuovere decine e decine di milioni di esseri umani di ogni razza e di ogni paese, di ogni classe e di ogni età.
Io credo che sia necessario spostare la ricerca dal piano cinematografico a quello storico e sociale. La carriera di Rodolfo Valentino durò sei anni, dal 1921 al 1926, nel periodo successivo alla guerra mondiale, quando le contraddizioni economiche, le lotte politiche ed il generale senso di smarrimento e di incertezza, caratteristici di una civiltà in trasformazione, rendevano sempre più aspra e soffocante la vita quotidiana di milioni e milioni di uomini comuni, e minacciavano pericolosamente, la miseria soprattutto, il senso morale e lo stesso vincolo della famiglia. Cosi nacque Rudy, creato dalle aspirazioni inespresse di milioni e milioni di donne. Fu la canzone, il libro, l’isola deserta, l’oppio, l’evasione insomma di una umanità sofferente per la quale la realtà era troppo dura a viversi, un’evasione che costava il mite prezzo di un biglietto d’ingresso.
E qui possiamo tornare al cinematografo ed al divismo, di cui Valentino non è che l’espressione fino ad oggi più completa. La sua eredità non fu raccolta da un altro « latino », da un Ramón Novarro, per esempio, che pure raggiunse una grande popolarità e tanto meno da un Ricardo Cortez o un Antonio Moreno, la sua eredità fu raccolta invece da una creatura nata nell’estremo Nord.
Nel novembre del 1906 un piccolo affarista di Stoccolma, Karl Gustafsson fu allietato dalla nascita della figlia Greta. Alla sua morte la piccola Greta quattordicenne trova lavoro come commessa nel reparto modisteria di un grande magazzino. Viene prescelta per alcune fotografie e per un filmetto pubblicitario. Viene notata dal noto regista Erik Petschler che le offre una parte nel suo film: Peter il vagabondo. Silenzio. Le acque si richiudono sulle aspirazioni della piccola svedese. Due anni di Conservatorio Teatrale di Stoccolma, diretto in quella epoca nientemeno che da Gustaf Molander. Piccolo contratto dignitoso con il Teatro Drammatico. Durante una recita le giunge un biglietto: « Non fate progetti per l’estate ». È firmato da colui che era con Victor Sjöström il « pater conscriptus » del cinema svedese e regista di fama mondiale, Mauritz Stiller. Egli sta preparando un film, La leggenda di Gosta Berlings dal bel romanzo di Selma Lagerlöf, ed ha bisogno di una giovane attrice. Un provino riuscito e la parte nel film, accanto Lars Hanson, è ottenuta. Un personaggio tenero e tranquillo. Ma Gustafsson è troppo lungo, dice Stiller, e la chiama Garbo. I due, che sono molto uniti, vanno a Berlino per la première del film. Successo. Pabst la vuole nel suo film La via senza gioia, accanto alla grande Asta Nielsen ed a Werner Krauss. Successo. Stiller viene chiamato dalla Paramount e fa ottenere un contratto alla sua attrice. Alla Metro-Goldwyn-Mayer, che era la sua società, la Garbo era considerata assai poco. Comunque, in attesa di farla lavorare ella fu sottoposta al trattamento pubblicitario normale a tutte le nuove stelline, a base di fotografie in serie nelle vesti di bagnante, sportiva, donna di casa, eccetera. Poi, nel 1926, anno della morte di Valentino, il suo primo film Il torrente.
Ma il personaggio Garbo nacque forse in quella scena del suo secondo film americano, La tentatrice nella quale ella assiste impassibile ad un duello a colpi di scudiscio fra due uomini che l’amavano. Era nata « Greta » « La Divina », « Colei Che Non Si Può Amare » e, per il volgo, colei che chiede sigarette in modo piuttosto singolare.
Il personaggio Garbo è, insieme a Chaplin, Stroheim, Fairbanks, Valentino, Dietrich, uno dei più coerenti prodotti del cinematografo americano.
I suoi principali, se non esclusivi, problemi sono di carattere sessuale. A tal punto che nel duello amoroso il vero maschio è lei ed il suo antagonista ha funzioni puramente recettive. Negli ultimi tempi, da Maria Walewska, soprattutto, si è potuto notare un certo cambiamento ed una certa ricerca di toni più umani e più veri. In Ninotchka ed in Non tradirmi con me, prodotti, non dimentichiamolo, in un periodo nel quale i mercati europei erano chiusi, e quindi destinati al mercato interno, il cambiamento è violentissimo, e per quanto riguarda il primo, diretto da Lubitsch, nettamente positivo.
Alla costituzione del personaggio Garbo concorrono alcuni elementi che sono facilmente individuabili.
Innanzi tutto l’effettivo talento e la non comune sensibilità dell’attrice. Poi il Nord. Il fascino del ghiaccio bollente peculiare a certe donne nordiche e soprattutto la loro, diciamo così, virilità, caratteristica di un paese nel quale la parità sessuale con l’uomo è profondamente sviluppata, hanno trovato in Greta un notevole esemplare.
Poi il divismo europeo anteguerra. Il pubblico, specie europeo conservava ancora il culto delle passioni profonde, degli amori suggestivi venati di peccato, degli eroi e delle eroine che, senza esagerare, naturalmente, e soprattutto senza intaccare interessi fondamentali, si ponessero contro la società in difesa del loro amore, quasi sempre illegittimo. E’ ovvio che tutto questo piaceva alla parte meno evoluta del pubblico o, se vogliamo, alla parte meno nobile dei singoli individui. Ma, come abbiamo già visto, i « signori del cinema » americani non possono davvero essere accusati di soverchie preoccupazioni di carattere sociale e morale. Lo stato maggiore della produzione aveva bisogno assoluto di una personalità fortissima destinata quasi essenzialmente all’esportazione, che sintetizzasse tutti i motivi caratteristici del vecchio divismo europeo, qualcuno che sostituisse, sia pure in scala ridotta, il prematuramente interrotto « affare Valentino ».
Così la piccola attrice svedese fu prescelta come campo di battaglia alle cinematografie europee. E qui entra in ballo un altro elemento che ha avuto una effettiva importanza nel « fenomeno Garbo »: la pubblicità. Per lei tutte le forme consuete furono ritenute banali ed inadatte: divorzi in serie, furti di gioielli, ghepardi, sposalizi con principi, fughe con giardinieri, tutto questo non bastava. E così si creò intorno a lei uno dei più formidabili meccanismi pubblicitari che l’America abbia mai prodotto, lo si creò con l’apparentemente semplicissimo metodo di « non » farle la pubblicità. Un alone di silenzio impenetrabile intorno ad una dea moderna.
In conclusione la Garbo è veramente un’ottima attrice alla quale solo la soffocante impalcatura costruitale attorno ha impedito finora di essere una grande artista, facendoci spesso domandare se, o quanto, almeno, della sua opera potrà resistere al passare del tempo ed all’evolversi della coscienza del pubblico.
Anche nei confronti di Marlene Dietrich è legittimo porsi la stessa domanda. Certo, il personaggio Marlene è molto più originale ed ha le sue origini, molto più della Garbo, in una situazione storica ed in una reale esigenza umana.
Marlene nacque a Berlino, da Von Losch, ufficiale dell’esercito imperiale e, sembra, di famiglia nobile. La sua infanzia nella Germania impegnata in una guerra mortale, dovette essere di certo molto triste ed amare le prime esperienze. Lo studio del violino le offri forse un’evasione. Crollato fragorosamente l’Imperio, Marlene Von Losch dovette guadagnarsi da vivere suonando in piccoli locali ed in cinematografi periferici. Poi venne ammessa alla scuola di recitazione del Deutsches Theater, la reggia di Reinhardt ed uno dei sacrari mondiali di Melpomene. Mentre era immersa fra Schiller e Kotzebue, Marlene venne prescelta da un modesto produttore cinematografico, Rudolf Sieber, per interpretare una parte di « cocotte » in un piccolo film e quella di sua moglie nella vita. Nozze. Nacque la piccola Maria.
Passarono alcuni anni, fra il teatro (fra l’altro in Broadway) ed il cinema (La donna che si desidera con Fritz Kortner, Enigma con lo stesso, Sconosciuta con Willy Fritsch, La nave degli uomini perduti diretto da Maurice Tourneur, Il bacillo dell’amore, Principessa Olalà con Carmen Boni), un progresso calmo e molto lento. Marlene, divenuta Dietrich, fra l’altro, canta in un locale notturno, con una bella voce profonda e pochi vestiti addosso. Queste due qualità le procuravano l’ammirazione palese dei frequentatori e, per sua fortuna, specialmente di uno. Nacque così L’angelo azzurro Lola Lola ed una delle attrici più interessanti prodotte dal cinematografo. Il personaggio Marlene nacque dall’incontro di Sternberg con un bellissimo corpo femminile nel dopoguerra tedesco.
La nascita avvenne completamente in Europa e l’America non fece che ospitare l’illustre emigrante. Marlene, nata come espressione di una Germania disfatta ma culturalmente viva (l’espressionismo e Wedekind specialmente la influenzarono senza alcun dubbio) manovrata dalla sensualità, dall’estro, e perchè no?, dalla passione di un vero artista, nel clima di Hollywood perdette sempre di più i propri caratteri realistici a vantaggio di un formalismo di alto livello fino a diventare una vera e propria maschera solida che non era più possibile plasmare ma solo accettare integralmente o spezzare.
E’ interessante notare fra parentesi, che Sternberg prima dell’incontro con Marlene era un regista di indubbie tendenze realistiche (The Salvation Hunters, Le notti di Chicago, I dannati dell’oceano, La mazzata, Il calvario di Lena Smith) e solo in seguito è venuto fuori quel suo esasperato formalismo.
Anche per la Garbo è avvenuto qualcosa di simile alla Dietrich e la maschera spezzata si chiama Ninotchka, ma con la differenza che ella è una vera attrice, dotata di una notevole tecnica recitativa. Non che Marlene non sia anche un’attrice ma certo la forza di cambiarsi profondamente non l’ha mai trovata.
Così, guidata dall’ossessionato Sternberg, Marlene ci è apparsa, identica, in quattro o cinque vesti diversi, fino alla strabiliante freccia del Parto, Capriccio spagnolo. Poi, dopo la parentesi de Il giardino di Allah e di La contessa Alessandra, l’incontro con Lubitsch: Desiderio (regia Borzage e supervisione Lubitsch) e Angelo. Con Lubitsch (lo stesso di Ninotchka) la sua maschera non fu spezzata, ma il suo personaggio subì una evoluzione, la più logica, anzi, delle evoluzioni. Il fatto è che quell’insieme di elementi storici, sociali, culturali, morali, di cui Marlene era stata l’incarnazione in L’angelo azzurro erano ormai scomparsi o meglio avevano cambiato sede. Ogni tentativo del resto di far vivere il personaggio fuori del suo ambiente poteva parzialmente riuscire solo dando alla donna una funzione puramente plastica che utilizzasse di Lola Lola, la forma perfetta.
Sternberg non aveva, né forse avrebbe potuto, fare più di questo. Lubitsch lo potè in quanto egli, a sua volta, era proprio l’esponente più tipico di quel mondo, che aveva ereditato i motivi fondamentali del mondo di Lola Lola. E certo, gli unici due film di Marlene nella quale ella abbia detto qualcosa di nuovo sono L’angelo azzurro e Angelo, anche se la evoluzione da cantatrice da caffè concerto della Germania guglielmina (creata però nel dopoguerra con tutte le nuove esperienze che la situazione aveva portato con sé) a moglie del ministro degli esteri di Sua Maestà Reale ed Imperiale Britannica possa apparire, così presentata, un po’ crudetta. Ma in effetti Angelo e Lola Lola sono due personaggi fondamentalmente realistici e realistici gli ambienti (sia il caffè concerto sia la « home » dell’uomo politico inglese e la casa di appuntamenti parigina) nei quali essi si muovono.
Anche l’ultima, ma forse non ultimissima, evoluzione di Marlene è logica ed umana: sempre più in basso, nelle colonie (La taverna dei sette peccati), o comunque nella taverna malfamata di Partita d’azzardo della quale, promozione pericolosa, è divenuta la direttrice.
Ora Marlene è stata in Francia dove ha lavorato accanto a Jean Gabin in Martin Roumagnac di Georges Lacombe.
Forse l’Europa potrà accogliere e dare pace e riposo e perdono a questa peccatrice di tutte le epoche e di tutte le classi sociali tornata stanca, ed avvilita nella sua vecchia terra.
Dopo Valentino non vi era stato nessun campione maschile del fascino europeo che raggiungesse una grande popolarità. John Gilbert, che discende anche lui in linea diretta dall’ « amoroso » europeo, con l’aggiunta di alcuni caratteri americani, era stato travolto dal sonoro. Fu trovato infine un maestro di sex-appeal in un attore francese che aveva già fatto alcuni film con un discreto successo (per es. Tempeste di passione di Robert Siodmak): Charles Boyer. Agli americani piacque la sua voce profonda, e, a quanto assicurano i giornalisti, la sua maniera di baciare. Egli peraltro seppe condurre i suoi affari in modo da non restare incalappiato a Hollywood ma da poter recitare alternativamente anche in Europa. Questo fatto fu per lui nettamente positivo perchè le sue cose migliori tranne forse Maria Walewska furono girate in Francia come Liliom di Fritz Lang e Delirio di Marc Allégret.
L’ultima importazione di sex-appeal europeo di una certa importanza si chiama Hedy Lamarr, l’ex Hedy Kiesler di Estasi, il cui fascino mitteleuropeo ha trovato in America dei sapienti manipolatori che riescono ad eludere alcune riserve di carattere artistico con argomenti di inoppugnabile efficacia.
(Il cinema in U.S.A. Roma: Anonima veritas editrice, 1947, pp. 142-150) |
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