FUORI NORMA
LA VIA NEOSPERIMENTALE DEL CINEMA ITALIANO
di Adriano Aprà



Controcorrente.


C’è stato Roberto Rossellini. C’è stato (overground) Michelangelo Antonioni. C’è stato Federico Fellini (anche lui overground ma non sempre nei miei gusti). Ci sono stati dagli anni ’60 in poi Pier Paolo Pasolini (anche documentarista), Marco Bellocchio (anche documentarista), Ermanno Olmi (anche documentarista), Bernardo Bertolucci, Marco Ferreri, Vittorio De Seta (anche documentarista). E c’è stato, molto marginalizzato ma oggi rivalutato, un underground italiano (Massimo Bacigalupo, Piero Bargellini, Gianfranco Brebbia, Paolo Brunatto, Tonino De Bernardi, Alberto Grifi, Alfredo Leonardi, Guido Lombardi-Anna Lajolo, Adamo Vergine), perfino con qualche star che non si considerava under: Carmelo Bene (dal teatro), Mario Schifano (dalla pittura).

Poi la crisi a metà degli anni ’70. I più grandi continuano ma i giovani sono orfani senza padri e senza terreno di coltura. Meteore. Il tentativo di fare nuovo cinema, di aprirsi a nuove forme, si scontra con situazioni produttive e distributive ostili. Qualcosa comunque è emerso, ma ai margini. E poi c’è stata la presenza in Italia di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub.

Negli anni ’80 la situazione non è cambiata.

Gli anni ’90 hanno visto rinascite, localizzate sempre ai margini. Rispetto al tentativo dominante di tornare a un cinema narrativo tradizionale, qualche avventuriero della pellicola cerca di proporre un nuovo modo di fare cinema, senza radici col passato.

La linea dominante negli anni 2000, nel cinema di finzione, nel documentario, nell’avanguardia propriamente detta, dal punto di vista della qualità innovativa – se ancora crediamo, come credo, nel valore dell’estetica –, è quella di una via neosperimentale del cinema italiano. Essa non ha nulla a che vedere, se non storicamente, con l’avanguardia italiana degli anni ’60-’70. Nasce da una crisi creativa del cinema narrativo e di quello cosiddetto del reale.

Sorge – non inaspettata per chi come me ha sempre dato molta importanza ai margini – dall’insoddisfazione di molti autori nei confronti delle forme espressive stabilizzate. Esse mal si adattano al bisogno di creazione di contenuti e quindi di forme nuove. La sala tradizionale, al cui accesso si inframettono produttori e distributori alieni alle novità, è ormai solo uno dei punti di visibilità. Si sono aggiunti il DVD e il web nonché sale indipendenti. E si sono aperti nuovi luoghi di proiezione non inquadrati nel sistema industriale, compresi i musei e le gallerie d’arte. Il digitale poi ha consentito di realizzare non solo opere a minor costo ma anche di metterne in pratica l’elasticità e le specificità “pittoriche”.

Non si tratta più di fare l’elogio del marginale. Si tratta di costatare che il gran numero di film di lungometraggio e mediometraggio – ai quali sarebbe giusto aggiungere quelli di cortometraggio – indica una tendenza (se non ancora un movimento, perché ciascuno continua a operare per proprio conto, isolato) emersa soprattutto negli anni 2000.

Fra il 2000 e il 2005 si sono distinti fra i lungometraggi (mi limito a citare, qui e altrove, un titolo per regista, e non tengo conto degli autori degli anni ’60: Bellocchio, Bertolucci, Olmi, i Taviani...): Il mnemonista (2000) di Paolo Rosa, L’amore probabilmente (2001) di Giuseppe Bertolucci, Un’ora sola ti vorrei (2002) di Alina Marazzi, Al primo soffio di vento (2002) di Franco Piavoli, Il ritorno di Cagliostro (2003) di Daniele Ciprì e Franco Maresco, Oh! Uomo (2004) di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi, Passato presente (2005) di Tonino De Bernardi. (Tra i film più tradizionalmente narrativi Domani, 2000, di Francesca Archibugi, Aprimi il cuore, 2002, di Giada Colagrande, Non ti muovere, 2004, di Sergio Castellitto; e tra i documentari Asuba de su serbatoiu, 2001, di Daniele Segre e Echi di pietra, 2003, di Sara Pozzoli); fra i cortometraggi, continuano a operare Paolo Gioli e il collettivo catanese canecapovolto.

C’è stato in anni più recenti, non lo nego, anche un cinema narrativo tradizionale buono e a volte ottimo. E anche un documentarismo del reale. Riconosco il valore di cineasti come Daniele Gaglianone con Pietro (2010), Alice Rohrwacher, Luigi Lo Cascio e Leonardo di Costanzo con le loro opere prime (Corpo celeste, 2011, La città ideale, 2012, L’intervallo, 2012), Uberto Pasolini (un italiano che vive e lavora a Londra) con Still Life (2013), Mirko Locatelli con I corpi estranei (2013), Claudio Caligari con Non essere cattivo (2015), Emanuela Piovano con L’età d’oro (2015-2016, specialmente nella versione director’s cut), Paolo Virzì con La pazza gioia (2016), Roberto De Paolis con Cuori puri (2017). Riconosco il valore di documentaristi come Daniele Segre e Gianfranco Pannone.

Ma fra il 2006 e il 2017 ecco una sorta di esplosione del neosperimentalismo (solo dodici sono, ma a loro modo, film di finzione, gli altri sono documentari o, meglio, “oggetti visivi non identificabili”; la doppia data riguarda i film la cui prima proiezione pubblica è successiva all'anno di realizzazione): Il peggio di noi (2006) di Corso Salani, Tre donne morali (2006) di Marcello Garofalo, Flòr da Baixa (2006) di Mauro Santini, Valzer (2007) di Salvatore Maira, Tramas (2007-2008) di Augusto Contento, Morire di lavoro (2008) di Daniele Segre, Il sol dell’avvenire (2008) di Gianfranco Pannone, Puccini e la fanciulla (2008) di Paolo Benvenuti, Archipels nitrate (2009) di Claudio Pazienza, Storia di una donna amata e di un assassino gentile (2009) di Luigi Faccini, Radio Singer (2009) di Pietro Balla, La bocca del lupo (2009) di Pietro Marcello, In amabile azzurro (2009) di Felice D’Agostino e Arturo Lavorato, Le quattro volte (2010) di Michelangelo Frammartino, La vita al tempo della morte (2010) di Andrea Caccia, Formato ridotto: Libere riscritture di cinema amatoriale (2012) di Home Movies (Antonio Bigini, Claudio Giapponesi, Paolo Simoni), Bellas mariposas (2012) di Salvatore Mereu, Terramatta; (2012) di Costanza Quatriglio, Tutto parla di te (2012) di Alina Marazzi, Il viaggio della signorina Vila (2012) di Elisabetta Sgarbi, El impenetrable (2012) di Danièle Incalcaterra e Fausta Quattrini, Su Re (2012) di Giovanni Columbu, Arianna (2012) di Alessandro Scippa, God Save the Green (2012-2013) di Michele Mellara e Alessandro Rossi, Sangue (2013) di Pippo Delbono, Il treno va a Mosca (2013) di Federico Ferrone e Michele Manzolini, Il mattino sorge ad est (2014) di Stefano Tagliaferri, Belluscone, una storia siciliana (2014) di Franco Maresco, Patria (2014) di Felice Farina, My Sister Is a Painter (2014) di Virginia Eleuteri Serpieri, N-CAPACE (2014) di Eleonora Danco, Habitat: Note personali (2014) di Emiliano Dante, Memorie: In viaggio verso Auschwitz (2014) di Danilo Monte, Abacuc (2014) di Luca Ferri, Gesù è morto per i peccati degli altri (2014) di Maria Arena, Montedoro (2015) di Antonello Faretta, Terra (2015) di Marco De Angelis e Antonio Di Trapani, Ananke (2015) di Claudio Romano, Per amor vostro (2015) di Giuseppe Gaudino, I ricordi del fiume (2015) di Gianluca e Massimiliano De Serio, La ragazza Carla (2015) di Alberto Saibene, Filmstudio, mon amour (2015) di Toni D’Angelo, Love Is All. Piergiorgio Welby, autoritratto (2015) di Francesco Andreotti e Livia Giunti, Senza di voi (2015) di Chiara Cremaschi, Che cos’è l’amore (2015-2016) di Fabio Martina, Ofelia non annega (2016) di Francesca Fini, La natura delle cose (2016) di Laura Viezzoli, Festa (2016) di Franco Piavoli, Spira Mirabilis (2016) di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, Mancanza-Purgatorio (2016) di Stefano Odoardi, Ab Urbe Coacta (2016) di Mauro Ruvolo, Il fascino dell’impossibile (2016) di Silvano Agosti, Sassi nello stagno (2016) di Luca Gorreri, Il Negozio (2016-2017) di Pasquale Misuraca, Lepanto – Último Cangaceiro (2016-2017) di Enrico Masi, The Good Intentions (2016-2017) di Beatrice Segolini e Maximilian Schlehuber, Dusk Chorus (2016-2017) di Nika Šaravanja e Alessandro D’Emilia, Cinema Grattacielo (2017) di Marco Bertozzi, Jointly Sleeping in Our Own Beds (2017) di Saverio Cappiello, The First Shot (2016-2017) di Yan Cheng e Federico Francioni, Le scandalose (2016-2017) di Gianfranco Giagni, Seguimi (2017) di Claudio Sestieri, Storie del dormiveglia (2017-2018) di Luca Magi. (E spetta ad altri giudicare i miei critofilm di questi anni).

Nel frattempo ho avuto modo di vedere film più recenti degli autori selezionati, a volte superiori a quelli già scelti: 87 ore (2015, 71’) di Costanza Quatriglio (agghiacciante documento di una morte evitabile registrata da telecamere di sorveglianza di un ospedale psichiatrico), Il secolo dell’Ebbrezza. 1914-2014 (2015-2018, 70’) di Pasquale Misuraca (saggio sul concetto di ebbrezza attraverso brani di film e foto), Vangelo (2016, 85’) di Pippo Delbono (alla ricerca di una spiritualità in un mondo degradato), Diaspora: Ogni fine è un inizio (2013-2016, 240’) di Luigi Faccini (meditazione sull’ebraismo in Italia, Stati Uniti e Israele), Nome di battaglia Donna (2016, 59’) di Daniele Segre (testimonianze di donne partigiane piemontesi), Shadowgram (2016-2017, 94’) di Augusto Contento (girato nei ghetti neri di Chicago), Chaco (2017, 110’) di Daniele Incalcaterra e Fausta Quattrini (seguito di El impenetrable), Sùrbiles (in sardo vuol dire più o meno Maghe, 2017, 73’) di Giovanni Columbu, L’altrove più vicino. Viaggio in Slovenia (2017, 50’) di Elisabetta Sgarbi (viaggio di meditazione e di riflessione saggistica), Essi bruciano ancora (2017, 94’) di Felice D’Agostino e Arturo Lavorato (ulteriore meditazione sulla Calabria), Mondo Za (2017, 80’) di Gianfranco Pannone (sulla Bassa padana), Appennino (2017, 66’) di Emiliano Dante (che completa, per ora, la trilogia del terremoto, dopo Into the Blue, 2009, 74’, e Habitat: Note personali), I’m in Love with my Car (2017, 71’) di Michele Mellara e Alessandro Rossi.

Ci sono anche film di autori che non conoscevo o di cui non avevo ancora visto gli ultimi film: La città senza notte (2015, 90’) di Alessandra Pescetta (anomalo film di finzione, opera prima), Tutto bianco (2015, 54’) di Morena Campani e Caroline Agrati (un critofilm su Antonioni), Bullied to Death (Bullizzato/a a morte, 2016, 70’) di Giovanni Coda (secondo suo film performance contro l’omo, lesbo e transfobia ma soprattutto per l’urgenza di un approccio umano alle questioni di genere), Sicilian Ghost Story (2017, 126’) di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza (altro anomalo film di finzione, opera seconda), ’77 No Commercial Use (2017, 127’) di Luis Fulvio Baglivi (film di montaggio sul quel fatidico anno), Cento anni (2017, 85’) di Davide Ferrario (saggio sui disastri italiani), Al di là dell’uno (2017, 53’) di Anna Marziano (meditazione saggistica sul bisogno di uscire dall’individualità). La tendenza fuorinorma continua a esplodere...

Troppi titoli? Me ne assumo la responsabilità ed essere generosi – se tale posso sembrare – in queste circostanze è un pregio. Non sto facendo storia ma cronaca: cronaca militante.

Del resto questo mio modo di vedere il cinema italiano nasce da lontano, da quando non mi limitavo a scrivere ma ci si batteva, schierandosi, in favore di un determinato tipo di cinema con strumenti che nel promuoverlo lo rendessero anche visibile: negli anni ’60 certe riviste (fra cui « Cinema & Film »), negli anni ’70 i club cinema (fra cui il Filmstudio 70), negli anni ’80 e ’90 certi festival (fra cui il Salso Film & TV Festival e la Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro). Oggi le cose sono cambiate e per molti versi migliorate. Se è vero che riviste e festival rischiano di appiattirsi su scelte unanimistiche, le sale indipendenti (fenomeno parallelo a quello di una produzione “dal basso”) si moltiplicano e si aprono proprio ai film che più ne hanno bisogno; e il web viene in soccorso per una più diffusa comunicazione e circolazione dei film di questa “generazione link”.

Appunti sul primo gruppo dei “fuorinorma” (le durate sono a 25 f/s arrotondate; si tenga presente che ciò che è indicato sul retro dei DVD non fa quasi mai fede e che esse possono variare leggermente a seconda del lettore o del computer e che le mie sono state calcolate tutte sullo stesso lettore).




Il peggio di noi (88’, colore, 4:3). Un’opera unica nella filmografia di Corso Salani (e, per quanto mi risulta, unica in assoluto): una “lettera aperta” a, o piuttosto un pamphlet contro, i collaboratori del suo Palabras (2003-2004), girato in Cile, in particolare la protagonista, Paloma Calle, vittima poco consapevole dei “giochi” degli altri (ma filmata con primi piani insistenti che dimostrano un’attrazione – era stata protagonista anche di Corrispondenze private, 2002 – che le parole sembrerebbero smentire). A suo modo, anche, un critofilm autobiografico (così definisco i documentari sul cinema che hanno un’ambizione stilistica autonoma). E una riflessione sulle dinamiche – negative – di gruppo. Il film utilizza del precedente solo il “girato”, ciak compresi (dove peraltro nulla trapela dei traumi rievocati, anzi), con un montaggio affannoso e ossessivo come la voce fuori campo del regista. Uno psicodramma al quadrato; o una disperata videolettera d’amore?




Tre donne morali (86’, colore, 16:9). Ritratti di tre donne fuori dal comune: l’insegnante elementare, solo in classi femminili, Linda Mennella (Marina Confalone); la ex suora e gestore di un cineclub a Napoli Ersilia Vallifuoco (Piera Degli Esposti); la pittrice e scultrice Amalia Concistoro (Lucia Ragni). Ogni ritratto è introdotto da citazioni letterarie. Le tre attrici sono sedute in palcoscenico. Le loro interviste – fatte da qualcuno fuori campo di cui non si sente la voce – sono inframezzate da materiale di repertorio a schermo pieno o intravisto in uno spiraglio del sipario. Nessuna indicazione nei titoli sulla provenienza dei testi delle interviste (soggetto e sceneggiatura risultano di Marcello Garofalo), sicché possiamo credere – nonostante le puntuali note biografiche – che si tratti di personaggi inventati. Non ha importanza, il proposito del documentario (se tale appare) non è quello di parlarci di cose “vere”. Si tratta infatti di un film-saggio, il cui interesse va aldilà della cronaca per investire, come dice il titolo, tematiche morali. Il repertorio, usato in maniera molto originale, è deformato, non ne viene rispettata la aspect ratio originale. Le interviste sono montate con frequenti jump cuts e cambi di angolazione ingiustificati, quasi a voler mimare ironicamente certe interviste televisive. Le tre donne – le tre attrici – parlano senza peli sulla lingua, in maniera assertiva, sicure di sé. Il nostro tempo disastrato trova conforto nella loro presenza positiva.




Flòr da Baixa (78’, colore, 4:3, senza dialogo) è il nome di una pensione di Lisbona da cui si dipartono gran parte delle vedute, o visioni (che si estendono a Rio de Janeiro, Marsiglia, Taranto: città di mare). Le qualità liquide del paesaggio, del digitale, del suono danno sostanza al carattere sognante dell’opera. Frammenti scanditi da neri accostati senza logica che si accumulano per formare un mosaico. On flâne. Immagini e suoni che vibrano, che palpitano. Una donna senza nome e senza tempo (Monica Cecchi, la compagna di Mauro Santini) avvia una serie di scene più continue. Scene costatative d’incantamento (di giorno con la donna per le stradine di Lisbona) e di spionaggio (da una finestra di notte a Marsiglia). Poi altre visioni notturne intervallate da neri a Taranto. Infine il ritorno alla pensione dell’inizio. Il cerchio magico si è chiuso: o si è aperto?




Valzer (82’, colore, 16:9) è stato girato interamente in (e all’inizio e alla fine all’esterno di) un albergo di Torino (NH Santo Stefano), con un unico piano-sequenza che comprende anche dei flash-back (direttore della fotografia Maurizio Calvesi). Potrebbe sembrare una performance di abilità tecnica sorprendente, ma ben presto si dimentica l’inquadratura unica e ci si appassiona agli attori, ai personaggi, alla storia, alla geografia dell’albergo, su e giù per i vari piani e le diverse classi (cameriere, manager, modelle) che si intrecciano, senza che mai si senta la pressione o l’esibizione di tale tecnica. Come suggerisce il titolo, la coreografia dei movimenti raggiunge un’armonia musicale che contraddice il labirinto spaziale. (Prezioso l’extra del DVD: “Valzer”, l’impresa. Backstage di Vito Picchinella, 2008, 26’).




Tramas (103’, colore, 4:3) è stato girato a São Paulo da un regista italiano che vive a Parigi. Vengono esibiti all’inizio gli strumenti digitali di lavoro, con ritorni lungo il film che vi aggiungono un aspetto metacinematografico. Montaggio fluido, proprio del video, con immagini assemblate per colori, per assonanze. Vetri, specchi, schermi che riflettono, rifrangono, distorcono. Persone e voci fuori campo dissociate. Musiche sapientemente selezionate. Una donna ci accompagna, muta, in giro per la megalopoli. Poi le interviste in presa diretta, cominciando da un uomo in metropolitana, mescolate con esterni. A sorpresa una canzone, « Paula, Paula, paulistana », che non interrompe il flusso ma vi aggiunge una pausa lirica, e che per certi versi riassume il film. Trame senza trama che si intrecciano per formare, alla fine, un saggio sociologico e urbanistico quasi scientifico, ma conservando la visione caotica di São Paulo attraverso i mezzi di trasporto, il movimento perpetuo.




Morire di lavoro (89’, colore, 16:9). Inquadrature rigorosamente fisse, senza montaggio interno. In apertura e chiusura un sarcastico Fratelli d’Italia. Per cominciare (con ritorni irregolari), una serie infinita di primissimi piani di donne che parlano, con lo sguardo in macchina, su sfondo nero, dei loro mariti, figli o parenti morti sul lavoro; poi una serie, ancora più infinita, sempre con lo sguardo in macchina e su sfondo nero, di operai – e un’operaia – edili, italiani e stranieri, che parlano del loro lavoro, compresi attività in nero, incidenti e lesioni, caporalato. Ripresi nel Lazio, in Campania, in Lombardia, in Piemonte. A interrompere le serie, ogni tanto inquadrature di gruppo o interviste di uomini e donne con l’intervistatore di quinta. E le voci, su inquadrature paesaggistiche (il Vesuvio, la Mole Antonelliana, il Duomo di Milano), di tre attori, due italiani e un senegalese, che rievocano la loro morte sul lavoro. La scelta stilistica radicale – ma non maniacale, ogni tanto con qualche opzione di montaggio anomala – di Daniele Segre conferisce al “documentario di denuncia sociale” una dimensione che travalica la cronaca, la contingenza di un lavoro specifico, quei volti e quelle voci.




Il sol dell’avvenire (77’, colore e b&n, 16:9 anche per il repertorio), realizzato con Giovanni Fasanella. Rievocazione della nascita delle Brigate Rosse a Reggio Emilia (il gruppo dell’“Appartamento”) con le testimonianze di alcuni protagonisti: Alberto Franceschini, Paolo Rozzi, Tonino Loris Paroli, Annibale Viappiani, Roberto Ognibene, oggi liberi cittadini, alcuni dopo aver scontato anni di carcere, altri non avendo aderito alla lotta armata, che si ritrovano dopo tanto tempo in occasione del film. E ci sono anche Corrado Corghi (un ex dirigente DC progressista), Adelmo Cervi (figlio di Aldo, uno dei sette fratelli) e Peppino Catellani (dirigente del PCI). A supporto delle testimonianze, materiale di repertorio cinematografico e fotografico, e i canti rivoluzionari di ieri e di oggi. Un documentario che rimette i protagonisti “in situazione” (un pranzo, una Festa dell’Unità – adattata ai nuovi tempi). In questo senso può essere ascritto solo in parte alla tendenza del cosiddetto “cinema del reale”. Un film sulla Resistenza tradita, che è stata una delle spinte della lotta armata. Né nostalgico né pentitista né utopico: una rivisitazione lucidamente commossa rivolta – implicitamente – alle nuove generazioni prive di memoria storica.




Puccini e la fanciulla (78’, colore, 4:3) è ambientato e girato a Torre del Lago (Viareggio), nei luoghi di Giacomo Puccini, e racconta le vicende che portarono al suicidio della servetta Doria Manfredi, presunto amore del musicista, nel gennaio 1909. La ricerca documentaria e lo scrupolo filologico sono alla base di questo come dei film precedenti di Paolo Benvenuti, degno allievo di Rossellini e degli Straub (è stato assistente di entrambi). Il film procede per scene brevi, intervallate da dissolvenze in nero o incrociate (come si usava una volta), praticamente senza dialoghi (qualche lettera letta fuori campo) e con musica pucciniana suonata al pianoforte più spesso in campo (il protagonista, Riccardo Moretti, è musicista e compositore) che fuori campo o con canzoni popolari locali. Giovanna Daddi (la moglie Elvira) è un’attrice straubiana. Stile sobrio, severo, quasi ascetico; e antipsicologico, quasi distanziato; nessun giudizio. Immagini limpide, mai ricercate; suono in presa diretta squillante (quelle porte che sbattono). Sorprendente conclusione, con un’ombra dreyeriana messaggera di morte. Un umanesimo stilistico rinascimentale (la casa di produzione di Benvenuti si chiama Arsenali Medicei). Un cortometraggio di 8’ su Puccini del 1915, girato quasi sicuramente da Giovacchino Forzano, ritrovato dal regista nel 2006, denota sorprendenti somiglianze con lo stile da lui scelto.




Archipels nitrate (Arcipelaghi nitrato, 62’, b&n e colore, 16:9 e 4:3 per gran parte del repertorio). Un critofilm, uno dei più belli. Una riflessione sul supporto e sui film nitrato (provenienti dalla Cinémathèque Royale de Belgique). La voce in francese di Claudio Pazienza, un italiano che da molto tempo vive e lavora a Bruxelles. Originalità dell’approccio, inventiva del montaggio, competenza, creatività e anche ironia del commento. Impermanenza ma infine permanenza del nitrato. Bellezza e unicità del cinema.




Storia di una donna amata e di un assassino gentile (201’, colore, 4:3) è composto da 7 parti: “Il cinema prima che io nascessi”, “Nel ventre nero della Storia”, “Il mio sogno americano”, “Per amore della vita”, “Muovere il tempo...”, “Se non ora quando?”, “Per quelli che verranno”. Luigi Faccini racconta la vita della sua compagna e produttrice Marina Piperno ma anche molte altre storie. Riprese famigliari odierne, film amatoriali del passato, fotografie, frammenti di finzione (tratti da altri film del regista), repertorio, brani di film. In campo Marina si racconta e ci racconta; fuori campo, discretamente, la voce di Luigi che interroga, dialoga: in mezzo la telecamera come un cordone ombelicale. Dal piccolo (la vita quotidiana, in campagna e in città, gli animali, la cucina, i fiori, la pittura: la natura) al grande (la Storia, le storie degli ebrei, la storia del “secolo breve”). Riflessione, anche, sul loro cinema (“Per amore della vita”). « Ti lascio questo mio testamento: cerca il senso della vita, insieme con i figli, nella lotta. – Vendicate il nostro sangue sparso. – Muoio e vivrò » (“Se non ora quando?”). Un requiem per il futuro. Il film si conclude verso un altro film (Rudolf Jacobs: L’uomo che nacque morendo, 2011).




Radio Singer (53’, colore e b&n, 4:3). Una sorta di seguito a ThyssenKrupp Blues (2008). 1 ottobre 1977, ultimo giorno di vita di Radio Singer, la voce dei lavoratori della fabbrica statunitense, un tempo famosa per le macchine per cucire, che ora produce lavatrici a Leinì, un borgo industrializzato vicino Torino; e giorno di chiusura della fabbrica. La voce di Pietro Balla commenta, con molta ironia, assieme a un’inchiesta radio di Maddalena, la sua ex (che si vede anche in campo, ma in realtà è una danzatrice). I filmati Super8 d’epoca sulle manifestazioni e sulle lotte della FLM. E le canzoni più in voga di allora. Tutto vero? Tutto falso (meno i filmati, ma non il loro montaggio)? È l’eterno dilemma che le nuove nonfictions sollevano. E che non va risolto per non infrangere la compresenza inedita di dramma (alla fine tragedia?) e farsa, politico e privato. Rievocazione di un’epoca movimentata e insieme distanza odierna da essa (penso a Il treno va a Mosca di Ferrone e Manzolini).




La bocca del lupo (68’, colore, 4:3). Il titolo si riferisce alla finestra della cella nel gergo carcerario. Si comincia dal mare di Genova. Poi il porto, e un uomo, mentre si inframezzano brani di film di famiglia e di repertorio, e vicoli notturni allucinati. Fuori campo le voci, le lettere scambiate dal carcere dell’uomo e del suo amore. Colpi di pistola evocano il delitto. La città di oggi si fonde con quella del passato. Una voce fuori campo ci ricorda ogni tanto la scomparsa di un mondo che fu. Finalmente, in lunghe inquadrature fisse, vediamo l’amore di Enzo: Mary, un transessuale. Ma questo non ha importanza. Conta l’amore che traspare dalla coppia e che supera le rovine del passato. Infine, di nuovo, il mare.




In amabile azzurro (98’, colore, 16:9). La vita quotidiana di contadini, pescatori, operai in Calabria (Nicòtera, culla della “dieta mediterranea”). Didascalie, e uomini e donne, in campo o in voice over, che citano testi antichi. Musica classica e operistica, e canti ancestrali. Elementi antitetici che si intrecciano senza comporsi. Le inquadrature si succedono in maniera discontinua, introducendo una dimensione di mistero. Gli elementi sparsi confluiscono alla fine nel mito, che conferisce alle apparenze di questo piccolo pezzo di terra e di mare una dimensione epica. « La loro follia, da quel giorno in poi, non sarebbe più stata la follia della paura, bensì la follia dell’uomo che sogna ».




Le quattro volte (85’, colore, 16:9) è ambientato in un piccolo borgo della Calabria. Titolo pitagorico. L’uomo ha « quattro vite successive, incastrate l’una dentro l’altra »: quella minerale, quella vegetale, quella animale e quella razionale. « Dobbiamo quindi conoscerci quattro volte » se vogliamo davvero capire il segreto della vita (Frammartino). Un vecchio pastore di capre, la sua vita quotidiana sui monti e in casa. Senza dialogo, senza musica. Una Passione paesana e le capre che sfuggono dal recinto e invadono il borgo (piano-sequenza di 9’45”). La morte del vecchio. Una capretta neonata. Immobilità, stupore, sospensione del tempo. Pastori più giovani si occupano ora delle capre e le portano al pascolo. Cinema di attesa, di meditazione lenta. La capretta si smarrisce sui monti. Un lungo tronco di abete viene issato nella piazzetta del borgo. Poi viene segato e portato alla carbonaia. Il lavoro degli uomini in armonia con la natura. (Molto istruttivo, negli extra del DVD, il backstage del piano-sequenza di Silvia Staderoli di 18’).




La vita al tempo della morte (82’, colore e b&n, 4:3). Un insetto in agonia. Atto primo: rocce umide di fiume, di pioggia, di neve (si pensa a Piavoli); alcuni bagnanti un po’ sfocati. La vita scorre. Atto secondo: tanti primi piani fissi, con qualche taglio interno, di donne e uomini in cura per tumore, anziani, adulti, giovani (si pensa al Segre di Morire di lavoro). Parlano della loro malattia, con la forza della sopravvivenza, spesso col sorriso sulle labbra. Atto terzo (in b&n): voce fuori campo – inventiva come il montaggio – di Andrea Caccia su immagini di un garage che viene sgombrato da lui e dal fratello Massimo da oggetti inutili. Si scava nel passato, i resti di una vita. Si fa pulizia. La vita ricomincia. Tesi, antitesi e sintesi? (Prolungamenti del film possono essere considerati Mi piace quello alto con le stampelle, 2011, 57’, e Le parole di Eleonora, 2011, 18’).




Formato ridotto: Libere riscritture di cinema amatoriale (51’, colore e b&n, 4:3; il sottotitolo è nei titoli di coda). “Il mare d’inverno” di Ermanno Cavazzoni; “Uomini la domenica” di Emidio Clementi; “Uomo donna pietra” di Enrico Brizzi; “51” di Wu Ming 2; “Strade” di Ugo Cornia. Cinque prose poetiche, con le voci fuori campo degli scrittori autori dei testi, descrittivi o inventati, visualizzati da film di famiglia emiliano-romagnoli delle più diverse provenienze sapientemente rimontati e musicati, con un esemplare impiego creativo del repertorio. Poesia che nasce dal basso a dare voce a un passato fragile, pronto a dissolversi nella impermanenza delle pellicole. Colori dell’8 e del Super8mm come non ne abbiamo mai visti al cinema. Un film così mette allegria.




Bellas mariposas (Belle farfalle in sardo, 101’, colore, 16:9). Colori densi, pastosi. Pedinamento continuo di due ragazzine, Cate (Sara Podda) e Luna, la prima delle quali si rivolge spesso in macchina, alla troupe, agli spettatori, coinvolgendoli nelle proprie vicende in una giornata di inizio agosto. Andamento narrativo quasi documentaristico, senza “fatti” (tutte quelle precisazioni sull’ora, i luoghi, i nomi e i cognomi). Registrazione di un raggio di luce (le due “farfalle”) in un universo sfasciato, quello di Cagliari e delle sue periferie. Parlato osceno ormai diventato abitudinario, eppure mai volgare. Nessun moralismo ma uno sguardo affettuoso sulle cose più nere, come fosse una commedia invece che un dramma (c’è un morto alla fine).




Terramatta; (75’, colore e b&n virato in seppia, 16:9 anche per il repertorio). « Vincenzo Rabito, dopo una vita da analfabeta, ha inventato una lingua e lasciato un’autobiografia di oltre mille pagine ». Una voce fuori campo (Roberto Nobile) legge dall’autobiografia mentre vediamo le pagine fittamente dattiloscritte (ossessione del punto e virgola ripreso nel titolo) e repertorio della Prima guerra mondiale. Qualche inquadratura di traffico odierno e del paesaggio siciliano. La guerra d’Africa. La cronaca comincia a farsi Storia. Chiaromonte, il paese in provincia di Siracusa da cui viene e va Vincenzo a seconda di vicende sempre più grandi di lui. Così fino alla Seconda guerra mondiale e al dopoguerra. Il ricordo autobiografico diventa concreto: vediamo ora i figli di Vincenzo, adulti (Turiddu, Tano, Giovanni). Il racconto si fa sempre più appassionante perché anche quello che sappiamo assume un colore nuovo dal linguaggio e dalla voce. La cronaca, la storia, la Storia finisce negli anni ‘60: credevamo di sapere tutto ma ora ne sappiamo di più, perché abbiamo passato 75’, una vita, con un personaggio straordinario. « Una cronaca vivente ». E, finalmente, la tomba ci rivela anche il volto di Vincenzo Rabito « scrittore ».




Tutto parla di te (78’, colore e b&n, 16:9 quasi sempre anche per il repertorio). Una finzione documentata, o un documentario in forma di finzione. Pauline (Charlotte Rampling, non doppiata) ha il ruolo della “traghettatrice”, un po’ come il “mediatore” Rod Steiger di E venne un uomo di Olmi. È una presenza, più che un personaggio, che lega le varie microstorie fra loro. Silenziosa la maggior parte del tempo, nella funzione di assistente sociale, quasi di psicoanalista, in un centro per neomamme a Torino, è traghettatrice fra documentario e finzione anche per lo spettatore. L’introduzione del repertorio – che sembra fuoriuscire dai reperti del passato che Pauline rovista – ha la funzione di proiettare i problemi della maternità in uno spazio e in un tempo più ampi di quelli dei casi personali. Come i pupazzi animati (di Beatrice Pucci). Come la voce off/in di Pauline che estende oltre la gravidanza e la maternità le problematiche femminili. Le prove di uno spettacolo di danza moderna – a cui partecipa Emma (Elena Radonicich), una delle ragazze in gravidanza, la più tormentata prima e dopo il parto – prolunga la fisicità dei corpi delle gestanti. Il passato di Pauline, alla fine, guarisce il presente di Emma.




Il viaggio della signorina Vila (55’, colore, 16:9). Il film fa parte della serie “Trieste”, che comprende anche Trieste la contesa (2012, 55’). In viaggio – accompagnati da un personaggio femminile quasi invisibile – nella Trieste multietnica, storica e odierna. Viaggio insieme poetico e didattico, libero nel proprio svolgimento e inventivo nel proprio montaggio. Parole che evocano, parole che informano, parole che soffrono (a volte parole di Scipio Slataper da Il mio Carso, 1912). La natura sembra guardare questo mondo drammatico e complesso dalla sua lontananza senza tempo.




El impenetrable (L’impenetrabile, 95’, colore, 16:9). Un racconto in prima persona: come restituire una terra di 5000 ettari, comprata nel 1983 dal padre nella “impenetrabile” foresta del Chaco in Paraguay, agli indios Guaraní-Ñandeva, a cui apparterrebbe di diritto, trasformandola in riserva naturale. Ma c’è un “cattivo”, Tranquillo Favero, il più grande proprietario terriero del Paraguay, che impedisce l’accesso alla proprietà degli Incalcaterra. Ben presto la questione privata assume una portata nazionale, come se mettere il dito nella piccola proprietà significasse far esplodere la piaga di un problema politico e morale di ben più vaste proporzioni. Ho detto “racconto”, perché l’andamento è quello di un film di finzione – southern, road movie, “giallo” – il cui finale, contrariamente a un film di finzione, è incerto. La suspense che lo caratterizza non è quindi artificiale ma reale. Alla fine il vento gira in favore di Danièle e di suo fratello Amerigo, riconosciuti legittimi proprietari. Ma questo non era prevedibile: dunque questo film “di finzione” è un documentario, un documentario appassionante come un film di finzione. Nasce la riserva “Arcadia”; e nasce il film. (Esiste un seguito: Chaco. L’avventura continua).




Su Re (Il Re, 76’, colore, un anomalo scope 2:1, in sardo con sottotitoli in italiano). Tratto dai quattro Vangeli, girato interamente con la macchina a mano mimando la tecnica di un documentario, e senza musica (salvo un coro alla fine). Comincia sul Calvario con ritorni indietro senza preavviso, quasi che quello della Passione fosse un tempo presente continuo. L’Ultima Cena, il Getsemani, il Bacio, il Processo, la Via Crucis, la Crocifissione sono trattati senza maiuscole. Facce anonime fortemente stagliate, minerali, contadine. Le frasi pronunciate sono involgarite rispetto a quelle originali, fluttuano nell’aria e non si sa troppo bene da chi provengano. Salvo Gesù, Giuda, Maria, non sappiamo neppure bene chi sia chi. La frantumazione del racconto fa del film una serie di tessere di un mosaico che somiglia alle riprese estemporanee di una rozza sacra processione di paese ricca di verità fisica.




Arianna (66’, b&n, e alla fine colore, 16:9). « Quell’Arianna che avevi abbandonato alle belve vive ancora. Vorresti forse ricevere queste notizie con pacata indifferenza, infame Teseo? » (dalle Heroides di Ovidio). Come in Le quattro volte, In amabile azzurro o Montedoro, il meridione è sotto il segno del mito. Siamo su un’isola (Procida) l’ultimo dell’anno. La nostra Arianna (Giovanna Giuliani), sarta, e il nostro Teseo (Nanni, Nanni Mayer), apicultore, stanno forse separandosi. L’andamento della narrazione è lacunare, frammentato, dal montaggio nervoso, non lineare (pur svolgendosi in continuità in due giornate): misterioso; denso di silenzi, o fatto di gesti e di parole che non sembrano condurre da nessuna parte. Il colore delle inquadrature finali, che dovrebbe dare al film più materia, conferma invece per contrasto l’astrazione del b&n sovraesposto.




God Save the Green (Dio salvi il verde, 73’, colore, 16:9 e 4:3 per il poco repertorio). « Marocco, Brasile, Kenya, Germania, Italia: storie di persone che, attraverso il verde, hanno dato un nuovo senso alla parola comunità e trasformato il tessuto sociale e cittadino. Un’alternativa globale concreta che riscrive ritmi e spazi del vivere urbano ». Un esempio egregio di cinema del reale, che spazia in tre continenti e cinque città (Casablanca, Teresina, Nairobi, Berlino, Torino) alla paziente ricerca di luoghi alternativi per la coltivazione del cibo. Esempi di “produzioni dal basso”. A intervalli una voce femminile commenta poeticamente queste “discese in campo”, rendendo universali le esperienze particolari. Un film sintetico, istruttivo e rinfrancante.




Sangue (90’, colore, 16:9) è girato col cellulare come altri video di Pippo Delbono (che viene dal teatro). Questo non significa affatto approssimazione tecnica, semmai elogio della “bassa definizione”. La desolazione dell’Aquila dopo il terremoto. Il funerale del brigatista rosso Prospero Gallinari sotto la neve. Con l’ex brigatista Giovanni Senzani in auto. La voce fuori campo del regista. La madre Margherita malata di cancro. La moglie di Senzani Anna, evocata, malata di cancro. Sofferenza. Morte. Sangue. Il dialogo con la madre morente, lui fuori campo: sull’amore, la carità, la vita oltre la vita. Una mano entra in campo a toccare le mani inerti. Il cadavere e la chiusura della bara. Meditazioni che i canti prolungano. La dettagliata descrizione di Senzani dell’uccisione di Roberto Peci per vendetta nei confronti del fratello Patrizio che aveva tradito le Brigate. Senzani con i figli sparge in mare le ceneri di Anna. Ancora L’Aquila. Un film a suo modo religioso: pietas per i morti innocenti o colpevoli, riuniti in un unico abbraccio, in un unico pianto, dentro un paese in rovina.




Il treno va a Mosca (66’, b&n, virato quasi tutto in seppia, e colore, 4:3). Basato sui film amatoriali in 8mm Paillard di Enzo Pasi, Luigi Pattuelli e Sauro Ravaglia, quest’ultimo voce narrante che oggi ricorda quell’avventura dell’agosto 1957, per il VI Festival mondiale della gioventù a Mosca, quando il comunismo era in Romagna una realtà. (E si veda “51” in Formato ridotto). Ma anche il suo viaggio in Algeria dopo la fine del colonialismo. Abile rimontaggio del repertorio, con sorprendenti momenti di astrazione. Immagini di felicità, di fraternità (ma anche della povertà moscovita) che – dopo la morte di Stalin, dopo le rivolte di Ungheria – si sarebbero rivelate fondate su un’illusione. Il film dà voce, e immagini, alla base comunista di altri tempi, con le sue speranze infrante. E la morte di Togliatti: « In mezzo a questa grande sfilata, di migliaia e migliaia di persone che non finiva mai, vedo questo vecchietto con in testa, sopra il cappello, una foto di Togliatti. Io lo filmai perché sapevo che quello rappresentava la fine di un mondo, che con Togliatti se ne andava tutto un mondo. Tutto quello che sarebbe venuto dopo sarebbe stato diverso ». Il sogno di una cosa che forse non c’è ma che dovrebbe esserci.




Il mattino sorge ad est (89’, colore, scope [2.25:1], in dialetto premanese con sottotitoli in italiano). Colpisce la cura estrema nei dettagli di questa ricostruzione storica: abiti, gesti, ambienti, parlata, in un film “fatto in famiglia”, isolato come il mondo che descrive, parlato in dialetto, memore forse di L’albero degli zoccoli di Olmi. Girato se si vuole in maniera “normale” (découpage, campi/controcampi), è anomalo nel panorama italiano per il suo adeguamento ostinato alla cadenza rallentata della comunità che descrive, quasi fosse un documentario, e resta comunque un “documento”. Ed è evidente la familiarità di chi filma con ciò che filma: dall’interno. Il carosello finale dei volti sorridenti dei non attori – protagonisti e comparse – che guardano in macchina sancisce il carattere di “profana rappresentazione popolare” di questo film.




Belluscone, una storia siciliana (89’, colore e b&n, 16:9 e 4:3 per il repertorio). Un film irripetibile, unico nella sua progressione e nelle sue strategie narrative. L’inchiesta di Franco Maresco sui rapporti fra Berlusconi e la mafia siciliana si arresta quando viene interrotta per ragioni tecniche – va in tilt il suono – l’intervista a Marcello Dell’Utri, braccio destro del Cavaliere e pezzo forte del film. Maresco scompare: depressione o minacce della mafia? L’amico Gaetano “Tatti” Sanguineti scende da Milano in soccorso dell’amico, per salvarlo e salvare il film. Si trasforma in detective, senza risultati decisivi. Questa intrusione ha il sapore della finzione. Coprotagonista è Francesco “Ciccio” Mira, accondiscendente ma reticente, manager in odore di mafia dei cantanti neomelodici di strada, fra cui il napoletano Vittorio Ricciardi, interprete della canzone Vorrei conoscere Berlusconi di Salvatore “Erik” De Castro, che lo accusa legalmente di infrazione dei diritti d’autore per poi riconciliarsi grazie alla mediazione dei palermitani (Salvatore) Ficarra & (Valentino) Picone di “Striscia la notizia”. Il succedersi delle situazioni, inframezzate da irresistibili materiali di repertorio delle TV regionali, è appassionante come un “giallo” di cui non conosciamo l’esito. Frammenti d’inchiesta, frammenti di film. Opera autoriflessiva, complicata, che si fa e si disfa sotto i nostri occhi. Rischiosa esteticamente e politicamente, è stata distribuita nelle pubbliche sale.




Patria (89’, colore e b&n, scope anche per il repertorio). Un film all’apparenza normale (vedi la musica un po’ convenzionale), che si differenzia però dalla norma per il “controcampo” del repertorio – sgranato e deformato dallo scope –, nonché disegni animati che rendono generale, e politico, il gesto individuale. Lo stabilimento torinese della GM che sta per chiudere licenziando tutti gli operai. Salvo (Francesco Pannofino) è incazzato col mondo, col lavoro, col sindacato. Decide di fare per conto proprio. Sale in cima a una torre (ricordate Il grido?) e da lì protesta: vuole che arrivi la televisione se no si butta giù. L’operaio sindacalista Giorgio (Roberto Citran) sale per impedirglielo. Un impiegato, Luca (Carlo Giuseppe Gabardini), ipovedente, autistico e tabagista, non poi così scemo come sembra, entra nella cabina di controllo video e da lì segue l’evolversi degli eventi. Lassù i due litigano discutendo di politica da opposte posizioni. Luca inserisce l’audio, si inframette tra i due e rievoca disastri e illusioni perdute dell’Italia attingendo a Patria 1978-2008 di Enrico Deaglio, a cui Felice Farina si è ispirato per il suo film. Luca sale anche lui sulla torre con dei viveri. A notte fonda arriva Rai3 per una smozzicata e ridicola intervista a Salvo. Tre modi di opporsi: la rivolta anarchica, la lotta sindacale nel rispetto delle leggi, la denuncia senza conseguenze pratiche. La mattina arriva la polizia, Giorgio ha un infarto. Sui titoli di coda ci viene detto che la vicenda dei tre protagonisti finisce bene. Ci crediamo davvero? Forse l’unico film tra i fuorinorma che guarda con poca speranza al futuro del Paese.




My Sister Is a Painter (Mia sorella è una pittrice, 37’, colore, scope). La voce fuori campo di Virginia – pittrice audiovisiva – su immagini disgiunte da ciò che dice, interrotte dai quadri della sorella Lisa: Down By the Water (2007-2009), The Second Sex (2004-2006), Distance (2009-2014), Mother (2009-2014). Una riflessione sul corpo femminile, « punto zero del mondo » (si pensa anche a Tutto parla di te di Alina Marazzi). Voci, sempre su immagini disgiunte, dissonanti come le musiche e i suoni, che riflettono sul concetto di arte. Una costruzione in contrappunto. Un critofilm, anche. Solo alla fine, nei titoli di coda, scopriamo che la voce che ci ha accompagnato è invece, sorprendentemente, quella di Lisa, e che il testo è composto di varie citazioni letterarie. Un gioco di specchi?




N-CAPACE (81’, colore, scope). Un documentario messo in scena o una messa in scena documentaria. Eleonora Danco proviene dal teatro. Vengono intervistati solo giovani e vecchi, fra cui il padre dell’autrice a cui lei, di mezza età, si rivolge conflittualmente. La città è Terracina, anche un poco Roma. Interviste di Eleonora fuori campo, con a volte istruzioni di comportamento e posture, si alternano a messe in scena di performance. Sesso, scuola, rapporti con i genitori, la morte. Non mancano momenti comici, sia per le risposte degli interrogati sia per le situazioni “artificiali”. Un film da cui emana una imprevista allegria. Complessivamente, una struttura decisamente originale per quello che non si riesce a definire né un documentario né una finzione (come nel caso di molti altri film di questo periodo).




Habitat: Note personali (56’, b&n e colore per scritte e segnali, per un paio di inquadrature e per qualche disegno, 16:9; il sottotitolo è nei titoli di coda). L’Aquila dopo il terremoto. La voce di Emiliano Dante, che vediamo muoversi in casa, interrogare o rivedere sul computer il materiale girato. Numerazione aleatoria delle sequenze da 50 a calare, talvolta con titoletti, e con un prologo (Perché fai questi sogni, Emiliano?) e un intervallo che introduce i disegni animati. Vengono presentati in auto i “personaggi”: Alessio e Paolo, ex compagni della tenda n. 3, e Roberta e Gemma. Alessio sta con Gemma, Paolo con Roberta, che aspetta una figlia; Alessio vende case, Paolo fa il pittore in attesa di un posto più stabile. Paolo lascia Roberta, Emiliano si mette con Valentina. Un film in prima persona, e metacinematografico, per raccontare – in un intreccio articolato – la sopravvivenza, la speranza e la dignità delle persone. Non senza un po’ di ironia.




Memorie: In viaggio verso Auschwitz (77’, colore, 16:9). Danilo Monte fa un regalo di compleanno per i suoi 30 anni al fratello Roberto: un viaggio in treno nel maggio 2014, da Torino ad Auschwitz. Come in El impenetrable di Incalcaterra e Quattrini, non sappiamo bene come andrà a finire, perché la videocamera segue il percorso nel suo farsi, anche se in questo caso manca la suspense; o, meglio, la suspense è interiore, non esteriore: riusciranno i due fratelli a capirsi dopo anni di incomprensioni? Viaggio di autoanalisi reciproca totalmente improvvisato salvo che per la scelta del percorso, il film è girato in maniera amatoriale, puntato su Roberto mentre Danilo resta fuori campo: una voce e un occhio per un film di famiglia, nel senso letterale del termine. Peraltro si alternano durante il viaggio “veri” film di famiglia, come dei flash-back, in ordine cronologico inverso. Roberto ha avuto problemi di eroina e ha ancora problemi di alcol. È stato lasciato dalla sua ragazza. Un film impudico, in cui ci si mette a nudo: uno psicodramma a due. A mano a mano che ci avviciniamo alla meta il dramma storico del nazismo e della sua fabbrica di morte prende il sopravvento su quello individuale, a cominciare dai dialoghi fuori campo su inquadrature dal finestrino del treno in Polonia e poi su immagini del campo di sterminio.




Abacuc (84’, b&n, 4:3). Un uomo grassissimo in barca (Dario Bacis, Abacuc: l’ottavo dei dodici profeti minori). Fotografie di famiglia. È l’incipit di un allucinato viaggio funerario in compagnia dell’uomo. « È la fine del mondo » dice ossessivamente una voce femminile, alternata con una maschile altrettanto ossessiva e artificiale che ripete in inglese. « Non c’è luogo, non c’è vita, non c’è modo di sperar ». Ma le musiche e i suoni sono ironici. Non saprei come altrimenti descrivere questa stranissima opera girata in Super8: « Abacuc è una marionetta senza spettatore, recita l’ultima pièce possibile. In quanto sopravvissuto alla catastrofe, che vive nel continuo inseguimento di nulla, Abacuc rappresenta il bisogno dell’arte cinematografica di autoestinguersi e implodere in se stessa » (Luca Ferri).




Gesù è morto per i peccati degli altri (91’, colore, 16:9). Turi Zinna declama una sua poesia sul quartiere San Berillo di Catania, « il più grande mercato del sesso povero d’Europa », abitato da trans e travestiti, molti in età e sfatti. Sono seguiti da una macchina a mano accolta come una complice, segno del grande lavoro preparatorio di Maria Arena con le persone. Cinema del reale, sì, ma per una volta nel migliore senso del termine, proprio per l’attività preliminare, e senza sentimentalismi, tantomeno pietismi, con enorme umanità invece. Ci sono i corsi di formazione professionale; ci sono le feste patronali che scandiscono per stagioni il film (autunno, inverno, primavera, estate); c’è un fotografo che fa un reportage su omosessualità e fede. Le immagini religiose costellano strade e case, là dove non ce le aspetteremmo. È un tratto fondamentale del film, donde il titolo (da un verso di Patti Smith).




Montedoro (84’, colore e b&n, scope anche per i film di famiglia). Una italo-americana di mezza età, Porziella (Pia Marie Mann, alla cui vera storia è ispirato il film), è alla ricerca del passato della madre morta nel paesino della Basilicata soprannominato Montedoro, abbandonato 50 anni prima dopo una frana, da dove entrambe provengono. All’inizio un ritmo lento ma realistico: il viaggio in taxi della protagonista. Ma quel guidatore (Joe Capalbo), ci chiediamo retrospettivamente, non è un traghettatore dal mondo della realtà al mondo del mito? Quelli che all’inizio possono sembrare sogni si amalgamano a poco a poco con le visioni del paesino che si ripopola di fantasmi, a cominciare dal cimitero fra le rocce, con cui lei si confonde. Visioni magiche in un tempo sospeso. Anche gli home movies del passato, a colori e in bianco e nero, vi appartengono. Un requiem per un passato che non ritorna e un futuro in rovina.




Terra (64’, colore, 16:9 anche per il repertorio) ha l’apparenza di un film di fantascienza catastrofico. La distruzione del nostro pianeta. Voci in più lingue – italiano, inglese, francese, tedesco, russo, portoghese (Júlio Bressane, Lou Castel, Franco Nero, Hélène Sevaux...) – che provengono da lontano rivolte non si sa a chi: forse alle persone che appaiono di tanto in tanto quasi fossero gli ultimi abitanti della terra (Hal Yamanouchi, Angela Carbone...). Frammenti dissociati sopravvissuti al disfacimento; o forse frammenti di ricordi fluttuanti. Montaggio sapientemente creativo di immagini della più diversa provenienza, dove ciò che è stato girato e ciò che è repertorio si confondono, si fondono. Misteriosissimo e affascinante. « Sacra e inviolata sarà la terra dove è sepolto uno Starec » (стaрец, termine russo che si riferisce ai mistici cristiani ortodossi dotati di particolare carisma e seguito).




Ananke (Destino, 73’, b&n, 16:9). Una coppia in un villaggio di montagna abbandonato in cui si è rifugiata per sfuggire a un’epidemia i cui ammalati si suicidano. Parlano in francese con accento. Lei è incinta. Una radiolina che non riesce a sintonizzarsi. Una capra chiamata Anankè dà loro il latte. Lo scorrere del tempo, lo scrosciare della pioggia. Uno stile scarno, essenziale, depurato. Bresson, Béla Tarr, Frammartino? La capra sparisce, nasce la bambina, ritorna la capra. Finalmente la radio, ascoltata dalla bambina grandicella con la capra, ritrasmette: Senza fine di Gino Paoli (ma potrebbe essere un flash-back?). Il film si conclude sulla lettera di lei alla madre sull’epidemia che avevamo già ascoltato prima. Il cerchio si chiude? O si apre? Una metafora sulla sopravvivenza a contatto con la natura.




Per amor vostro (112’, b&n e colore, scope). Le peregrinazioni di Anna (Valeria Golino) in una Napoli caotica, tra impegni di lavoro e pesanti responsabilità famigliari, inseguita, assediata da una videocamera affannata e frantumata. Canzoni. Pause di colore pitturato. Il linguaggio gestuale a cui anche gli altri famigliari si adeguano per comunicare con il figlio Arturo sordomuto. Anna si dà agli altri, vive per gli altri: per amor vostro. Ma l’amore a cui anela? Un dolore lancinante attraversa tutto il film, un’angoscia che gli intermezzi a colori non vogliono attenuare. Ma un “miracolo” a colori conclude il film.




I ricordi del fiume (96’, colore, 16:9). La videocamera pedina un bambino in una grande baraccopoli alla periferia di Torino lungo gli argini dello Stura: il Platz, abitata da una comunità di circa 1000 rumeni. Un occhio costatativo addosso alle persone che rivela la familiarità dei fratelli De Serio con l’ambiente nel quale si muovono nonostante la loro diversa estrazione sociale. Il Comune ha deciso di smantellare il Platz e di assegnare delle case agli abitanti, ma non a tutti. Una volta stabilite queste coordinate, non c’è evoluzione drammaturgica ma un semplice svolgersi delle situazioni, con calma. Cinema della realtà che sa guardare l’altro come fratello.




La ragazza Carla (59’, colore e b&n, 16:9 e 4:3 per il repertorio). Dal poema omonimo di Elio Pagliarani (1960). Carla Chiarelli legge ampi brani del poema in campo e su repertorio AAMOD (senza logo) e Olivetti (con logo) di vita quotidiana milanese (più una “striscia” parallela che una illustrazione), su inquadrature della città di Expo 2015 che fanno eco a quelle anni ’60 (le quali verso la fine, per un momento, vengono gonfiate in 16:9 mescolandosi assieme a delle foto con quelle odierne), su disegni (Gabriella Giannelli) e animazioni astratte, su didascalie che riassumono i pochi brani saltati e con interventi di Elio (di Elio e le Storie Tese) in una classe femminile che risponde a lettere di altre ragazze. Un film sull’alienazione metropolitana, ma fatto a distanza, quindi ironico se non a momenti addirittura comico. Film d’amore per la Milano di ieri e di oggi e per il suo cantore, che chiude il film.




Filmstudio, mon amour (69’, colore e b&n, 16:9 anche per il repertorio). Un critofilm, come Archipels nitrate di Pazienza, anche se in modo meno radicale. In questo film sono coinvolto in prima persona: ho diretto il club cinema negli anni ’70, dapprima assieme a Enzo Ungari. Per questo mi limito a dire che nel suo essere film di testimonianze e di ricostruzione storica ripropone nel modo in cui è fatto lo spirito che ci guidava in quell’avventura: quello della sperimentazione.




Love Is All. Piergiorgio Welby, autoritratto (59’, colore, 16:9 e 4:3 per quasi tutti i film di famiglia). Animazione di quadri e fotografie di Piergiorgio Welby, deformazione del repertorio. Una voce calma dice le parole di Piergiorgio. Ma il montaggio spastico ne corregge l’andamento lineare. La moglie Mina al suo fianco. E la voce artificiale di Piergiorgio che si rivolge inutilmente alle autorità per rivendicare il diritto a una morte civile per eutanasia. Resta solo la disubbidienza. « Non ero abbastanza vivo per i vivi, non ero abbastanza morto per i morti ».




Senza di voi (52’, colore e b&n, 16:9 e 4:3 per il repertorio e altro). Chiara Cremaschi (voce narrante) vuole andarsene via dall’Italia, per sempre, in compagnia dei cugini Davide e Manuel, esperti di viaggi. Ne rievoca in proposito uno a Barcellona nel 1994 dei due, giovanissimi, con l’amico Umberto, illustrata da film amatoriali. Il fratello di Davide e altri amici raccontano oggi a Chiara fuori campo (a noi) quell’avventura, con loro alla ricerca dei fuggiaschi come novelli investigatori, e anche gli scontri di Genova. Abbiamo il sospetto che non tutto sia vero. Ma che importa? È una bella storia di giovani alla ricerca della libertà, delle loro delusioni e – come il Sandokan dell’infanzia di Chiara – delle loro speranze odierne per il futuro.




Che cos’è l’amore (64’, colore, 16:9). Milano. Una vicenda vera rirecitata per Fabio Martina dai protagonisti di una insolita e tenerissima storia d’amore: Danilo Reschigna, 50 anni, con problemi di mobilità e di parola, drammaturgo e attore teatrale, e Vanna Botta, 93 anni, arzilla, pittrice. Difficile pensare infatti che una situazione così intima – fino alla rischiosa ma delicata scena di sesso fuori campo – possa venire colta sul vivo dal regista. Del resto ci sono altri esempi analoghi nel passato del “documentario”, cominciando da Nanook of the North (1922) di Robert Flaherty. In ogni caso i due agiscono come se non ci fosse la telecamera, segno della familiarità di Fabio con loro. Danilo, che ha perduto i genitori, recita in teatro un proprio testo autobiografico sui rapporti infantili con la madre, con qualche perplessità del regista; Vanna dipinge Danilo. Dopo un banale litigio, una scappatella di Danilo senza conseguenze. Insieme al Cimitero Monumentale, di fronte a una statua di bronzo del padre di Vanna, scultore antifascista. Il matrimonio civile di Danilo e Vanna sui titoli di coda. La felicità non ha confini. « L’amore è sempre e ovunque possibile ».




Ofelia non annega (91’, colore e b&n, 16:9 e 4:3 per il repertorio). Francesca Fini è una performer, e una performance molto articolata è quella messa in scena. Il controcanto, però, sono documentari d’archivio selezionati e montati con grande originalità. Questi due livelli apparentemente discordanti – uno in 16:9, uno in 4:3 (col marchio del LUCE!) – costruiscono a poco a poco una struttura ambigua. Il suono dei documentari si intreccia con quello delle performance, le quali si prolungano nei documentari, performance a loro modo. « Ofelia non annega è un film sperimentale che reinterpreta in chiave surrealista il dramma di Shakespeare dal punto di vista della giovane Ofelia. [...] Al centro di tutto c’è un’Ofelia diversa da quella tramandata dalla tradizione letteraria: non l’adolescente fragile ma tante donne diverse per colori, fattezze, età. [...] Un’Ofelia che alla fine non annega, rinunciando al suo destino di eroina romantica per diventare una “persona normale” » (Fini).




La natura delle cose (67’, colore e b&n, 16:9 e 4:3 per il repertorio). Laura Viezzoli dialoga con Angelo Santagostino – nome e cognome mistici – che ha la voce (baritonale bassa come lui voleva) di Roberto Citran. Angelo ci racconta: prete a 25 anni, lascia il sacerdozio nel 1974 per sposare Marinella; nel 2008, a 65 anni, i primi sintomi, la diagnosi di SLA, la morte per cancro al seno di Marinella. La sua vita quotidiana assistito, 8 ore ciascuno, da Luis, Alicia e Harold, sotto lo sguardo pudico di Laura. La macchina per scrivere con gli occhi (Eyegaze System). Le riflessioni – individuali e generali – sulle emozioni, il dolore, la morte. Tutto questo accompagnato da film di famiglia e soprattutto da repertorio NASA sui voli interplanetari e il galleggiamento danzante dei corpi, sogno impossibile di Angelo. L’accettazione della morte e la nostalgia della vita. (Ripenso ad altri film simili tra quelli “fuorinorma”).




Festa (40’, colore, 16:9). Dall’aurora alla notte a San Pietro nel mantovano (e in altri paesini e villaggi del mantovano e del bresciano). Uomini e donne di tutte le età uniti in un’unica festa. Ogni volto – anziani, adulti, giovani, bambini – ha la sua dignità, la sua bellezza. Il ballo, ed echi di altri film di Franco Piavoli (la sezione estiva di Voci nel tempo...). Tanta musica ma nessuna di commento, e niente dialoghi (salvo l’omelia del prete). Un inno sussurrato a un’umanità, per una giornata, in armonia.




Spira Mirabilis (122’, colore, 16:9) è una spirale che si svolge seguendo un logoritmo messo a punto dal secentesco Jakob Bernoulli: ha la forma di una curva che si avviluppa su se stessa senza mai raggiungere il polo centrale. Le immagini all’inizio incompatibili e misteriose (talvolta a schermo ridotto quali film amatoriali) delineano a poco a poco quattro storie diverse. Senza una parola di commento (una voce misteriosa in francese – Marina Vlady – legge L’immortale di Borges) ma con una densa tessitura sonora. Gli operai della Fabbrica del Duomo milanese, il biologo giapponese che studia una medusa “immortale”, gli artigiani svizzero-tedeschi inventori di un nuovo strumento a percussione, i nativi americani della tribù Oglala in difesa della loro indipendenza a Wounded Knee nel South Dakota: tutti concentrati meticolosamente sulla loro attività. A volte le immagini “documentarie” assumono valenze astratte. Mondo minerale, vegetale e animale, acqua, aria, terra e fuoco, arte e scienza si danno la mano in questa incessante meditazione dialettica sull’immortalità e sulla finitudine.




Mancanza-Purgatorio (84’, b&n e colore per l’ultima inquadratura, 16:9). Il film è parte di una trilogia che comprende Mancanza-Inferno (2014, 70’) e, non ancora realizzato, Mancanza-Paradiso. La rapida inquadratura finale, astratta, tre pennellate di giallo e blu (un acquerello di Stefano Odoardi), potrebbe riassumere metaforicamente il film: due situazioni parallele e opposte, che si incrociano in arancione. Una terrazza a mare (a Cagliari) piena di 17 uomini e donne (e un cane medico) che indossano giubbotti di salvataggio (gli Uomini della Terra); una nave da carico deserta, che naviga in mare aperto, abitata da una donna “sublime” (Angelique Cavallari, l’Angelo). Sospesi, in attesa di che? i primi; diretta verso dove? la seconda. I primi parlano a turno, non sanno perché si trovano lì né dove andranno, analizzano le proprie eventuali colpe; la seconda è accompagnata all’inizio da una voce fuori campo (Sebastiano Filocamo), e parla a volte a se stessa, anche lei alla ricerca di una spiegazione della propria situazione assurda. Sound design assai elaborato (Kamila Wójcik). Alternanza di video HD e Super8 (il mare visto dall’Angelo, gli zoom sulla terrazza all’inizio e alla fine). Gli Uomini della Terra si tolgono infine i giubbotti. Gli umani e l’angelo sono prigionieri, sembrano perduti. Ci sarà il loro riscatto? Raggiungeranno la meta?




Ab Urbe Coacta (74’, colore, scope). Mauro “Barella” Bonanni è il proprietario di un’officina di autodemolizioni nel quartiere della Certosa e di Tor Pignattara a Roma. Come in alcuni dei migliori esempi di cinema del reale si percepisce la famigliarità dell’autore con l’ambiente e le persone che descrive (Mauro Ruvolo è nipote del protagonista). Frammenti, abilmente montati anche in discontinuità, di vita quotidiana al lavoro e in casa, degli amici, di gare motociclistiche, di extracomunitari, perfino dell’intimità; e il romanesco sboccato di una città coatta e imprigionante. Ma il film ha anche modo di evocare o di visualizzare rapidamente il passato. E di prefigurare il futuro, lontano da Roma, nel Benin. Questo finale ci coglie di sorpresa, allontanando il film dalla cronaca e proiettandolo in una dimensione insieme epica e lirica che, a ben vedere, scorreva da tempo sottotraccia.




Il fascino dell’impossibile (60’, colore e b&n, 16:9 e 4:3 per il non molto repertorio). Troina (Enna). Padre Luigi Orazio Ferlauto, a 92 anni (è morto a 95 il 12 settembre 2017), ci parla della sua creatura, l’Oasi: una splendida struttura in cima al paese per bambini disabili dotata di tutti i servizi indispensabili, in cui « tutti gli arredi sono stati realizzati con materiali di recupero ». L’ha fondata negli anni ’50. Ora ha in mente qualcosa di ancora più ambizioso: la “città futura”, l’Oasi città aperta, a valle di Troina, dove disabili e abili possano convivere e condividere. La vita quotidiana dei bambini e dei volontari, i sorrisi, i movimenti controllati a fatica, e il paesaggio intorno. Scenografie incredibili in un luogo del genere. Un inno alla speranza, alla forza dell’amore, al perseverare in ciò in cui si crede, per gli altri. « Offro questo film all’innocenza dei disabili che mantengono intatta la spontaneità dell’infanzia ».




Sassi nello stagno (88’, colore e b&n, 16:9 e 4:3 per il repertorio). Un altro critofilm, dopo Filmstudio, mon amour di Toni D’Angelo, che mi coinvolge in prima persona: altra avventura degli anni ’80, quella del Salso Film & TV Festival, quando era più facile farne uno perché c’era poca concorrenza; ma anche quando ci voleva coraggio a mettere sullo stesso piano cinema e video, moderno e classico: ancora una volta, sperimentare nuove forme e nuovi percorsi. Il film di Luca Gorreri riflette molto bene quello spirito, compresa l’ironia nei confronti della sua squallida coda, quando ce n’eravamo andati via.




Il Negozio (78’, colore, 16:9). Un negozio di ottica in via Merulana a Roma. Pasquale Misuraca ci informa nel prologo che il proprietario Daniele Canavacci, suo amico, è morto dopo le riprese, e che ciò che vedremo proviene dalle videocamere di sorveglianza istallate nel negozio e consegnategli dalla moglie. Un dispositivo coercitivo, dunque. Inquadrature fisse (al massimo qualche lento zoom) da quattro – anzi cinque – postazioni, di cui una con grandangolo deformante. Dissolvenze e neri intervallano le riprese. Ogni tanto l’inserzione di inquadrature che illustrano le chiacchiere dei clienti con Daniele. Altri entrano, provano gli occhiali, comprano, escono. C’è anche Pasquale. Banali spezzoni di vita quotidiana. Ma anche scene divertenti, comiche, a volte un po’ surreali. Dopo una chiusura del negozio, su nero, l’audio di una sparatoria per strada. Documentario o finzione? Il negozio è anche il luogo della negoziazione fra autore e spettatore sul dilemma vero-falso.




Lepanto – Último Cangaceiro (72’, colore, 16:9). Mi piace molto l’intrecciarsi delle varie storie (il narratore inglese “autore” del film, le olimpiadi di Rio de Janeiro, la battaglia navale di Lepanto, a Cipro, fra cristiani e ottomani del 1571, vinta dai primi, il cangaceiro ieri e oggi) e il modo in cui finiscono per fondersi. Mi piace soprattutto la presenza di tante inquadrature “fuori contesto” in un montaggio frammentato e imprevedibile che arricchisce il film di suggestioni spiazzanti. Mi piace l’uso di più formati con quelle svampate del 16mm. Mi piace il finale aperto, così come è stato aperto tutto il film, che non si è mai fatto rinchiudere dalle varie storie. È un film privato, urbanistico, politico, storico. Molte cose insieme. Un film complesso nel miglior senso della parola.




The Good Intentions (Le buone intenzioni, 84’, colore, 16:9 e 4:3 per i film di famiglia). Cinéma-vérité che fa pensare a certi film rumeni o a quelli dei Dardenne. Ma soprattutto film terapeutico. Una famiglia, la madre Lorella e i tre figli Stefano, Michele e Beatrice (la co-regista) si interrogano sui problemi causati da un padre violento e insieme introverso che ha lasciato la moglie e che vive da solo in un allevamento di cavalli. L’inserzione dei film di famiglia, pochi, non chiarisce i conflitti. Quando vediamo il padre Paolo, che prima Michele e poi Beatrice vanno a trovare, non sembra né violento né così introverso. Lo psicodramma non raggiunge una vera soluzione: la madre è l’unica che dichiara di aver trovato un aiuto nel film, iniziando a vivere da sola; Stefano ha deciso finalmente di incontrare il padre, ma non sappiamo con che risultato; Michele, il meno traumatizzato dai rapporti col padre, decide di andare a vivere all’estero. E Beatrice, con la sua opera autoriflessiva, ha comunque compiuto un gesto per tentare una riconciliazione: se col padre continua ad avere rapporti formali, adesso c’è per lei un film in più.




Dusk Chorus (Coro del crepuscolo, 62’, colore, 16:9). « Nel 2001 David Monacchi ha iniziato un progetto di lungo termine [Fragments of Extinction] per registrare il suono degli ecosistemi più antichi, ricchi di biodiversità e ancora intatti del pianeta. Per diverse ragioni si è concentrato sulle foreste primarie equatoriali più remote... ma ha trovato pochissimi habitat rimasti indisturbati... ». Come un esploratore d’altri tempi e uno scienziato di oggi, seguiamo Monacchi con microfoni tridimensionali, registratore e computer nel Parco nazionale di Yasuni in Equador alla ricerca di antiche impronte sonore. A bassa voce accompagna diaristicamente la sua esplorazione. Un viaggio archeologico e un film da ascoltare sulle origini del pianeta. Un passato proiettato nel futuro per la preservazione dell’ecosistema. Un film epico ed etico.




Cinema Grattacielo (98’, colore e b&n, 16:9 e 4:3 per il repertorio, le riprese antecedenti e altre ancora). Un film sul grattacielo dell’architetto istriano Raoul Puhali a Rimini, in via Principe Amedeo: 100 metri, 27 piani, 900 appartamenti. Ci abita anche il riminese Marco Bertozzi, che ha studiato architettura, assieme a un microcosmo di 17 nazionalità. Dall’inaugurazione nel 1959 alla festa per i 50 anni, il film descrive eventi di tutti i giorni. Ma soprattutto mette in prospettiva storica, dalla ricostruzione del dopoguerra agli anni del boom al multietnismo odierno, questo monumento che doveva celebrare la capitale italiana e internazionale del turismo (e il Ponte di Tiberio, che torna di tanto in tanto, dilata tale prospettiva). Ma la Rimini che vediamo, con le sue case bassine fra cui svetta il grattacielo, non è quella dei vacanzieri. Il grattacielo è anche una nave spaziale, che si proietta nel futuro, che sogna, e che si mette in scena dalle viscere alla cima, accarezzata da due “impossibili” panoramiche, una verticale e una orizzontale, realizzate con un drone. La voce dell’autore si alterna a quella del grattacielo (lo scrittore Ermanno Cavazzoni, che appare in campo alla fine) rendendo il film insieme metacinematografico e metafisico. Il titolo è anche un omaggio al cinema di un altro grattacielo di Puhali a Trieste chiuso negli anni ’90 e a tutti i cinema italiani che sono scomparsi.




Jointly Sleeping in Our Own Beds (Dormire insieme ciascuno nel proprio letto, 63’, colore, 16:9). Dialogo via skype fra una ragazza belga (Pauline Vossaert) e il milanese Saverio Cappiello. Un dispositivo originale, non ne conosco di analoghi. Il film comincia al cellulare, con Pauline che cerca l’albero magico della sua infanzia in un bosco non più vergine. Poi il dialogo a due, in inglese, inframezzato da scritte quando il sonoro è spento, ciascuno nel proprio letto, misto a riprese col cellulare. Lei a schermo pieno, lui piccolo in basso a destra. Solo a metà film, su un terrazzino di notte, viene esibito il dispositivo. Una storia d’amore virtuale, a bassa definizione e ad alta sensibilità. Alla fine, non più al cellulare, l’albero magico viene ritrovato, e il sole occhieggia tra il fogliame. I nostri due ragazzi della generazione @ ci hanno raccontato una favola.




The First Shot (Il primo sparo, 76’, colore, 16:9). Federico Francioni e il suo compagno del Centro Sperimentale Yan Cheng viaggiano in Cina con la loro videocamera pedinatrice, inserendo ogni tanto riprese al ralenti che sembrano aggiungere al film un elemento di sospensione e di mistero. Incontrano in una discarica di mattoni Haitao e i suoi gatti. La sua vita quotidiana alla periferia di Beijing. Il suo articolo, immediatamente censurato sul web, sul massacro di Tienanmen (15 aprile-4 giugno 1989): ma lui è nato nel 1990. Le incertezze sul senso della propria attività artistica di “resistenza”. Yixing (1990) osserva la città dall’alto del suo appartamento, dove tutto cambia troppo rapidamente, e proietta immagini sulla parete. « La perdita di identità, la perdita della memoria, la perdita di un centro ». Yiyi (1992) vive a Londra e sta tornando dai parenti al villaggio natale di Wuhan, al centro della Cina. Viene anche rievocato l’affondamento di una nave con circa 450 vittime sul fiume Yangtze il 2 giugno 2015. Ma Yiyi ha ormai la mente altrove. I tre ragazzi parlano in inglese (lei però soprattutto in cinese), usano il cellulare e il computer, ma non hanno radici storiche, anche se si infiltrano nel corso del film ombre del passato. Tre vicende che non si intrecciano ma che insieme trasmettono, attraverso dettagli apparentemente senza importanza, l’inquietudine della giovane generazione cinese sul proprio futuro e su quello del loro paese.




Le scandalose (58’, b&n e colore, 16:9 anche per il repertorio). Una citazione in voice over e una scritta di Cesare Lombroso (La donna delinquente, la prostituta e la donna normale, 1894) introducono il film, composto per la maggior parte da repertorio, accompagnato da parole delle donne, talvolta in diretta (peccato non sentire la voce di Caterina Fort), colpevoli di omicidi che hanno contrassegnato la nostra cronaca dal fascismo agli anni ’80; da una voce fuori campo, oltre a quella dei cinegiornali, che riprende articoli d’epoca, in parte battuti su una macchina per scrivere; da inquadrature di istituti psichiatrici o di pena, sulle cui pareti vengono introdotti in sovrimpressione materiali d’archivio sul contesto; dagli strumenti dei delitti. La selezione del repertorio e il montaggio elaborato evidenziano un lungo lavoro di ricerca e di postproduzione, che non si limita ai casi rievocati. In tempi di femminicidio e di relativo oblio del femminismo questo film rivendica una diversa interpretazione dell’isterismo, della seminfermità mentale o altro con cui per troppo tempo sono state classificate quelle donne. Un film politico.




Seguimi (91’, colore, scope). Un film al femminile diretto da un uomo (ma cosceneggiato da una donna). Non sembra un film italiano. Affascinante e misterioso, psicoanalitico ed erotico, con echi hitchcockiani (Vertigo). Strutturato in scene brevi, rapide, avvolge lo spettatore in un’aura impalpabile, indefinibile: come se tale strategia volesse respingerlo – ma forse per una spettatrice è diverso – fuori dalla possibilità di identificarsi, di “entrare”. Due presenze femminili (Angelique Cavallari, la tuffatrice Marta, e Maya Murofushi, la modella giapponese Haru) che escludono il maschio (Pier Giorgio Bellocchio, il pittore Sebastian), il quale a sua volta è chiuso nel suo maschilismo aggressivo e autodistruttivo. Alternanza dei tempi narrativi, taglio delle inquadrature, movimenti di macchina, illuminazione, musica, ambientazione (Matera), costumi contribuiscono a creare l’atmosfera di irrealtà, di sospensione, di impermanenza che caratterizza il film.




Storie del dormiveglia (67’, colore, 16:9). Un dormitorio all’estrema periferia di Bologna, il Rostom, frequentato da emarginati italiani ed extracomunitari. Una voce fuori campo con accento inglese: scopriamo a mezza strada che è quella di un ex soldato – « sono un lupo solitario » – che formula a suo modo la condizione di molti per cui la vita ha ormai perso senso. Facce scavate in primissimo piano, tanti silenzi, poche parole a mezzabocca, quante sigarette nelle notti insonni, corridoi spettrali, impiego sapiente del buio e della luce. Aperture improvvise su uno spazio aperto: sognato? Una festicciola chiude il film come un filo di speranza. Dal corridoio sbuca un cane – il lupo del sogno? – ma alla fine se ne va.


Qualche considerazione generale.

Una cosa che colpisce in praticamente tutti i film è la visione positiva del mondo, una prospettiva costruttiva, anche in presenza di situazioni ambientali, sociali e individuali drammatiche quando non tragiche. C’è una difesa di valori che va contro il “lamento”, anche contro la semplice “denuncia”. Come se andare a scavare sopra e sotto la “realtà” (è anche questo il senso di un approccio sperimentale) significasse rivelare un’altra realtà. Sembra profilarsi una prospettiva diversa da quelle catastrofiche a cui il cinema e la televisione troppo spesso ci abituano: una parola di speranza per un mondo disperato. E un cinema spesso in prima persona, mai impersonale: una testimonianza della nuova società circolare. Conosciamo con questi film bella gente, non alienata, che riesce a superare le proprie difficoltà e a proporre un modo nuovo di essere al mondo. Un cinema di resistenza. Non solo film di grande qualità, dunque, ma la presenza di una società e di persone migliori: documentate dal cinema. Il personale è politico. Le minoranze di oggi saranno le maggioranze di domani?

Perché tanti documentari (o, forse meglio, nonfictions) a fronte di così pochi film di finzione? Intanto bisogna dire che anche i film di finzione lo sono solo in parte: c’è in diversi di essi la penetrazione o l’inserzione di elementi documentaristici, e la gabbia della sceneggiatura precostituita viene superata. Ma il problema è soprattutto che la nonfiction non ha regole produttive ed estetiche precostituite: è finito da tempo il modello voce fuori campo-musica di accompagnamento-immagini illustrative, che però ancora sopravvive in televisione. Ogni film inventa il proprio stile. Molto più difficile innovare nel campo della finzione, dove vigono tuttora normative produttive, distributive ed estetiche. Inoltre il digitale ha facilitato i modi di produzione e arricchito le opzioni espressive.

A questo proposito va detto che non sempre le caratteristiche innovative del digitale vengono impiegate fino in fondo. Incrostazioni, elaborazioni “pittoriche” dell’immagine, plurischermi, insomma l’effetto speciale come effetto normale e altre possibilità facilitate dalla nuova tecnica si riscontrano ancora in una minoranza di film. Ma non dubito che in futuro la visione non realistica del mondo si accentuerà.

Del resto, già in molti dei film citati, lo stile sperimentale aggiunge una dimensione universale, astratta, che supera i condizionamenti cronachistici del cosiddetto cinema del reale.

Il meccanismo distributivo è cambiato: questi film io li ho visti in sale indipendenti, in DVD, sul web. È il segnale che qualcosa sta mutando in uno dei settori più chiusi della catena cinematografica.

Tutti questi film sono a basso costo: di regale povertà. Questo non vuol dire che si lesini sulle qualità tecniche, anzi. Si pensi alla elaborazione del sound design, volto non agli “effetti” del cinema di finzione tradizionale ma all’invenzione di un nuovo universo sonoro.

Molti film, anche di finzione, ricorrono all’impiego di materiale di repertorio (cinegiornali, home movies, meno spesso film narrativi): a parte alcuni problemi tecnici (trasferimento in 16:9 invece che nell’originale 4:3, inserimento di logo), esso è creativo e non meramente illustrativo come nella maggior parte dei documentari televisivi, e in alcuni casi l’accostamento con immagini originali è sorprendente e inedito. Il repertorio riattiva il passato.

Dal punto di vista più meramente tecnico, a fronte dell’impiego ormai esclusivo, anche altrove, del formato 16:9, cioè 1.85:1, permane il desiderio di ricorrere al caro, vecchio 4:3, cioè 1.37:1 (non solo per il repertorio), e ci si avventura anche nella dimensione “grande” dello scope (con un paio di anomalie rispetto allo standard 2.35:1), e in molti film i formati si alternano. Il bianco e nero non è scomparso: ritorna come incrostazione e a volte come scelta per l’intero film. Le durate rompono con i diktat cinematografici e televisivi (90’ e più, 52’) e si adeguano alle necessità espressive di ogni singola opera. Assistiamo inoltre alla commistione di diversi supporti di ripresa: non solo il digitale nelle sue varie tipologie ma anche l’8 e il Super8, il 16 e il Super16, e perfino il 35mm.

Peter Wollen ha scritto molti anni fa The Two Avant-Gardes (in « Studio International », dicembre 1975; poi nel suo Readings and Writings: Semiotic Counter-Strategies, Verso, London 1982, pp. 92-104): da una parte l’underground propriamente detto, dall’altra le opere di autori come Godard, Straub-Huillet, Hanoun o Jancsó. Il neosperimentalismo italiano si colloca sul secondo fronte, quello diciamo soft (mentre molti dei cortometraggi si collocano piuttosto sul primo fronte, quello diciamo hard).

Jonas Mekas, in salutare polemica con il centenario del cinema, ha pubblicato (proprio in forma di poster) il suo Anti-100 Years of Cinema Manifesto (« Point d’Ironie », n. 1, Parigi 1996): « In tempi di produzioni opulente, spettacolari, da 100 milioni di dollari, voglio prendere la parola in favore dei piccoli, invisibili atti dello spirito umano, così tenui, così piccoli, che quando vengono esposti ai proiettori muoiono. Voglio celebrare le forme del cinema piccole, le forme liriche, la poesia, l’acquerello, lo studio, lo schizzo, la cartolina, l’arabesco, il sonetto, la bagattella e le canzoncine in 8mm ».

Susan Sontag, anche lei in occasione del centenario, si è interrogata sulla sua morte in The Decay of Cinema (« The New York Times », 25 febbraio 1996; tr. it., col titolo Fine del mito, in « Bianco & Nero », luglio-dicembre 1996, pp. 9-14, con numerose risposte italiane e straniere): « I cento anni del cinema sembrano avere la forma di un ciclo vitale: una nascita inevitabile, la costante accumulazione di glorie e l’avvio, nell’ultimo decennio, di un ignominioso, irreversibile declino. Ciò non significa che non ci saranno più nuovi film da poter ammirare. Ma tali film non solo dovranno essere eccezioni – ciò vale per le grandi prove di ogni arte. Dovranno essere eroiche violazioni delle norme e delle pratiche che oggi governano la cinematografia in tutto il mondo capitalista o che al capitalismo aspira – il che significa ovunque ».

Sono sperimentali i film di cui ho parlato? Lo sono in quanto ricercano nuove strategie espressive diverse da e opposte a quelle istituzionalizzate dal cinema di finzione, da quello documentario e dalla televisione. Lo sono perché saggiano, e molti proprio nella forma del film-saggio. Lo sono perché scoprono nuove ipotesi narrative, nuove strutture drammaturgiche, nuove opzioni di montaggio, di musica, di suono: di messa in scena. Lo sono perché vibra in ognuno di essi la tensione verso uno stile personale, perché hanno un progetto estetico e non solo la voglia di raccontare una storia. Lo sono perché non gridano i loro budget ma sussurrano dialogicamente per chi ancora vuole ascoltare. Lo sono perché si rivolgono allo spettatore considerato come un partner, che pensa e che rielabora.

Un altro cinema italiano è possibile.


Ringrazio Simone Cangelosi, Antonello Faretta, Roberto Fiorenza, Silvio Grasselli, Paolo Mereghetti, Luca Mosso, Giacomo Ravesi e Gianmarco Torri per alcune segnalazioni.



(28 febbraio 2018)

 

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