UNA COMETA D’INTENSITÀ
da Toni D’Angela


Solo l’intensità importa.

Georges Bataille

Esaltante, illimitato, eccessivo, assolutamente moderno, come un compito irreprensibile, una vocazione vertiginosa, per niente rassicurante. Altro dal grande progetto armato e pacificato, ricerca assoluto dell’oggetto perduto, rincorsa del desiderio impossibile e introvabile per (in)definizione: Je suis un autre! Consumo di energia, sul posto, al momento, nel fuoco dell’istante: nessuna ipoteca pesante dell’eternità che sorveglia e censura. Una corrente, una brezza, una fiamma, non il discorso terrorista del Genitore incestuoso o del Custode interessato: è Pola X.

Leos Carax è figlio del modernismo, un tardo modernista, Pola X, il suo ultimo lungometraggio, è un campionario del suo talento visionario e del suo immaginario, un’allegoria passionale, ma anche uno sfrontato rifiuto dell’armamentario europeo. Carax sceglie una “lingua minore”, sperimentale, uno stile che non è maggioritario, un attacco estremo e violento alla difesa dell’identità: l’identità dello scrittore “sporcaccione” di biancovestito, puro e candido solo perché predestinato al successo, e dell’Europa grandiosamente corrotta e malata. Pola X è un film di rifiuti, resti, rovine, residui, frammenti, che richiama l’eterogenesi caotica di Gli amanti del Pont-Neuf. Figure dell’estraneo, dell’alterità negata, assaltata e assalita affinché non possa mischiarsi, mescolarsi nel sangue rumoroso e confuso del meticciato, affinché il bel giovane stirato non scopra l’orribile verità diventando così un clochard claudicante e folle. Esclusi, giovani rifiutati presi a schiaffi dagli adulti, giovani artisti arringati e arrangiati da vecchisi parassiti della cultura. Pola X è un recupero di materiali che salva questi avanzi della Storia, archeologia industriale che nel dissesto fa (dis)senso, musica che riconquista elementi metallurgici reinvestendoli di nuovo significato (il rock sperimentale di Scott Walker) con-figurando un inedito territorio dis-occupato, una comune differenziata, un’isola, un’eterotopia come il ponte in ristrutturazione di Gli amanti del Pont-Neuf, ma ancora ambigua: quasi un bunker contro il mondo con monitor, cani, armi.

Pola X è un’opera esposta, esibita, impudente, tutta esteriorizzata come l’anima di un cane, palesemente, pericolosamente, sfacciatamente straripante. Sputo rabbioso contro la logica serena e trasparente della riduzione di complessità che passa al lanciafiamme l’altro ed esige la corrispondenza fra aspirazioni e decisioni. Lo smascheramento brutale del retromondo della menzogna confortante, l’apparizione scandalosa e rivoltante della preistoria del privilegio. Mondo turbolento e febbricitante che scalpita, incatenato dietro il muro cui è stato confinato, affinché risalti solo la bellezza ordinata e pettinata della grande casa ben fatta, castello della finzione protetta dai prati verdi e dalle distese di bugie sanguinose. Come la merda esplosiva che affiora dalle fogne cavernose della tecnologica Tokyo in Merde, sotterranei di una storia sommersa da cui emerge una creatura un po’ folletto e un po’ Mr. Hyde che scuote una città incatenata e incantata nella sua ipnosi high tech. Asilo di un messaggero di verità stravagante, dispettoso, irriverente, crudele e commovente nella postura gestuale acrobatica e poetica di Denis Lavant.

Espettorato poeticamente, Pola X incendia il giardino acconciato, squadernandosi la copertina spettacolare, facendosi pagina bianca imbrattata e accartocciata e, infine, disseminata, come i brani dei Titani: frammenti, resti, rovine. È il segno di Leos Carax: solo gli zoppi, gli incompiuti, i disfatti, corpi sudati, esibiti, a petto nudo, con la pancia indurita, feriti alla mano o all’occhio, come i personaggi di Rosso sangue. Solo i mezzi poveri, scriveva Georges Bataille, possono operare la rottura, quelli ricchi hanno troppo senso, sono ingombranti, si interpongono fra noi e l’ignoto, fra noi e l’Atlantico. Gli esseri incrinati, spezzati di Carax hanno la virtù di non accettare ciò che è, vogliono liberarsi dal fondo, gemere, soffrire, per non sopportare nemmeno la facile e bella armonia e il comfort.

Il cinema di Carax è questa corsa impazzita sul ponte parigino, saetta che appiattisce perfino i fuochi d’artificio istituzionali della grandeur francese e che sugella l’antagonismo tra il mondo vero degli amanti e la società ordinaria, sfondo opaco e inerte, a dispetto della singolarità del rapporto carnale e viscerale fra Denis Lavant e Juliette Binoche (Pont-Neuf). Sebbene anche loro, così singolari ed eccedenti, debbano infine farla finito con il giudizio, con la finzione, sciogliersi da tutti i legami nel tuffo catartico e palingenetico, nell’acqua che pulisce e rinnova donando una nuova grazia e leggerezza ai corpi, ormai slanciati verso l’orizzonte dei domani, sulla chiatta sognante de L’Atalante. Una danza nelle acque dell’estasi, picchiata, colata a picco, immersione nel tumulto, alle soglie della morte, che fa di due frammenti, di due resti, fiamma centrifuga abbozzata già nell’accelerato della Binoche nel finale di Rosso sangue: tentativo di spiccare il volo del senso. Caduta risplendente di gloria. Il modern love di Carax, del resto, è sempre amour fou, caos che si acquieta solo in seno alla morte, romanticamente. Amore e morte sono fratelli come in Boy Meets Girl, dall’uno nasce il bene più grande, l’altra annulla il male più grande. Pace e vecchiaia, mortalmente impastati in un frivolo e noiosamente funereo afterhour di cera, deridono o ignorano i giovani innamorati e disperati, stanchi e languidi, le tenere ragazze in pena e i villanelli ignari che bramano, solo la morte li avvolge e ristora, chiudendo gli occhi tristi di Mireille Perrier e colorandone di innocente sangue il candore bianco della vestale verginea. Alex (Denis Lavant) e Mireille sono i fanciulli del mondo di cui cantava Giacomo Leopardi.

Pola X è un altro odio gridato contro la volgarità del mondo, la sua onta, il mondo armato contro i giovani. È un'altra volontà di essere senza limiti, un altro tumulto acefalo che rifiuta la finzione di una vita ordinata e coesa, un’altra caduta vertiginosa. Un viaggio intenso che cola a picco nel canyon della violenza storica, la più indicibile, in fondo alla notte dell’Europa, nell’incubo di tenebra della guerra che ha violentato e smembrato l’ex-Jugoslavia, fantasma dell’Europa e della sua storia e delle sue divisioni. Come il padre di Pierre (un diplomatico) è responsabile della figlia illegittima, così l’Europa è all’origine dell’incestuoso suicidio jugoslavo.

La verità è un lungo e tormentato piano-sequenza nella notte selvaggia, senza casco né luce, il rifiuto estremo della madre che mostra il seno, il taglio del cordone ombelicale, la ferita e la malattia e il crash che costellano il racconto e ne scandiscono la dialettica. È l’ingresso nel tunnel oscuro della storia che promette solo viaggi progressivi (la catastrofe del progresso), costi quel che costi, lasciando dietro di sé macerie e rottami: un parricidio e, insieme, un affratellamento con l’altro che il Padre ha sempre additato ed escluso.

Pola X è una cometa eccedente che si ama o si odia, una separazione radicale dall’universo ordinato, né liquido, né solido, forse neppure un corpo: nel film i corpi nascono sotto i nostri occhi, sfaldati, scolpiti, composti nell’oscurità, fasci di luce intrecciati a masse di carne, fra l’Underground americano e Philippe Grandrieux. Una pericolosa e mortale evasione. Forse un romanticismo ingenuo, dunque, innocente e assoluto, intollerabile per tutti i poliziotti del sistema che reclamano chiarezza e distinzione: identità.

La verità della pace è la guerra della menzogna, come le parate militari che accompagnano, in maniera sinistra, il 14 luglio e la corsa disperata di Juliette Binoche in Gli amanti del Pont-Neuf. Mentre la finzione della crisi è crisi della finzione.

 

VOLTAR AO ÍNDICE

 

 

2012 – Foco