UN CANTO D’AMORE. LES PASSAGERS
da Toni D’Angela


Les passagers è un essay sulla vita metropolitana che evoca Simmel e Benjamin, fatto di traversate sokuroviane ma pure di tranches de vie warholiane, fra Blow Job e I, a Man: un close up nel fondo della masturbazione, spalancato su desiderio e solitudine, le parole come gesti e liturgie, e le canzoni, interruzioni del corso del mondo, come nel Vecchiali di Change pas de main o nel Resnais di Parole, parole, parole o, ancora, ne La visiteuse dello stesso Jean-Claude Guiguet - già attore e assistente di Vecchiali e Biette e critico cinematografico.



Corpi e memorie, materie e ossessioni, volti e carezze, chiacchiere e tonalità affettive che rivelano l’urto del mondo (postfordista) esponendo l’essere umano alla sua stessa natura incerta e sprovvista, non-specializzata e indeterminata e, insieme, ad un mondo aperto. Letture di romanzi, citazioni filmiche (fra le altre l’amato Johnny Guitar e La maman et la putain), stesure autobiografiche, tutto un dialogo della scrittura che scolpisce, nel teatro a più uscite di un tram, identità che di volta in volta, con tenacia e delicatezza, si inseguono e inseguono se stesse, un segno, un supporto, un’espressione, un amore, una carne da incontrare, possedere, con cui mischiarsi, per poi di nuovo danzare come i movimenti di macchina piani, vellutati, morbidi come una carezza che, tuttavia, a volte, lasciano il posto ad improvvise, e poetiche, inquadrature: panoramiche appena abbozzate, oblique, sospese, che divaricano, o istantanee sublimi e stranianti che ancora una volta smentiscono la semplice filiazione del cinema dalla fotografia perché il presente si disfa sotto i nostri occhi, nella durata di questa visione di queste auto in rovina, di questi copertoni abbandonati sotto la pioggia, di questi spettrali spazi dell’abitare crollanti, rottami degradati, usurati, catastrofati, ruderi scostati come nei film di Béla Tarr, dove i corpi diminuiti, schiacciati dalla pioggia, comunque resistono: noi ne siamo il corpo.





Il film tutto si compone di movimenti come una sinfonia, di una città, di un mondo che mondeggia (si manifesta nel continuo spaesamento dell’animale umano che per definizione è un essere indefinito), si delinea nelle linee, nei contorni, nelle sculture, vere, che Guiguet sa creare in questa ricerca disperata, appassionata, sincera, che scava nella morte, nel lutto di una civiltà in bancarotta, nella solitudine, ma che mai è nichilista o compiaciuta: politica e poesia, poetica del sociale, il fango e le stelle, come in Elia Kazan. La precisa realtà sociale, in cui oggi si gioca, o deteriora, il nostro carattere, ha la sua genesi nelle viscere e nei furori e nelle paure e nei cattivi sentimenti che si agglutinano e impastano dentro questo tram, mondo gehleniano (contesto vitale generico e riserva di avventure, incognite e sorprese), lucreziano clinamen che fa cozzare gli uni contro gli altri, esponendoli al rischio e alla possibilità, sempre in equilibrio precario, soggetti ad una frenata brusca e improvvisa, ad una svolta troppo rapida. Il progresso del sociale (“l’idea beata del progresso”, come enuncia uno degli attori del film), contro cui metteva in guardia Benjamin, ovvero il galoppo del patologico, non fa scomparire del tutto il meraviglioso, la bellezza, l’innamorarsi - e nemmeno la ribellione di una moltitudine precaria e mutevole, intercambiabile e pronta a scendere alla prossima fermata e, proprio per questa sua congenita indecisione e non-specializzazione, è, al tempo stesso, sia aperta al possibile, al tumulto, alla discontinuità, che a diventare - nel postfordismo che mobilita affetti, linguaggi, intelletti, differenze, flessibilità, virtuosismi - mero profilo professionale (adattabilità ai mutamenti) e asse portante della produzione di plusvalore.

Fluido, scorrevole, affascinante e armonioso, I passeggeri, accordo di forma e idea, non rimuove le violenze repentine, le sensazioni più dolorose, le urla e i furori di vecchie risentite mangiate dalla delusione o giovani agenti di borsa già sepolti nella bara della devozione più cieca. Forse un canto del cigno - la morte articola la struttura del récit - ma non per questo è meno pieno e intenso. Canto purissimo e luminoso, danza elegante ma pungente, di ribelli, disperati, emarginati, integrati, opportunisti, ambiziosi, omosessuali, eterosessuali, trisessuali, onanisti, disperatamente o serenamente ancora, nonostante tutto, attaccati alla vita, come Guiguet che la racconta intrecciando storie e facce, amore e morte, perché solo chi muore smette di morire e non nasce più. Approvazione della vita fin dentro la morte, come nel finale di 7 Women. Le belle maniere sono un atto d’amore per la vita, non un bel gesto ma la forza formatrice dello stile che si afferma nel caos e nel disordine della malattia, afferma il diritto alla vita, la forma che affonda nella chora per ritagliare dimensioni di senso e visibilità, contorni e rilievi. Anche nell’ultimo film di John Ford c’era l’affrontamento dello schermo nero, del buio, della malattia, della crisi, della morte, della paura dell’altro e di toccarsi con gli altri diversi da noi. Qui, subito, nell’incipit, la via (il metodo) è tracciata, Guiguet entra nel tunnel oscuro, con passo deciso e sempre leggiadro, e infine, attraversandolo, recupera la luce.





Il sociale è legato allo spazio interiore e, insieme, questi si ridefiniscono e ricostruiscono nel linguaggio della creazione che sullo schermo fa com-parire corpi e fantasmi che nella vita inseguono sogni e passioni, volti vinti dalla realtà, psicologie deluse, folli, timorose, attese e stazioni dell’anima (siamo su un tram che sia chiama desiderio, delirio, paura, ossessione, incontro). La malattia, che sul film sempre allunga la sua sinistra ombra, è questa rottura del legame fra poetica e sociale, spazio intimo e luoghi comuni.

Nel corridoio del tram, che esplora una Parigi insolita, non quella centrata e storica, ma la Parigi nord (tutto un paesaggio mentale, psicogeografico, un sobborgo del desiderio), sentiamo il battito del cuore, il ricordo di un amore perduto, la fantasticheria occasionata dalla apparizione di una viaggiatrice o di un passante sul marciapiede, il sole, la neve, il crepuscolo della sera, il vino del solitario, lo sbattere di porte del passato, serrature inaccessibili, notti insensate, singhiozzi, lo spleen, il respiro sospeso di un giovane gay che ha paura del suo stesso desiderio, gli inviti innumerevoli alla fuga, all’evasione, come nell’universo di Blanqui, l’eternità attraverso gli altri, altre storie, focolai luminosi che accendono la fantasia dei passeggeri, il desiderio che, come l’idrogeno, brucia la materia organica di cui sono composti gli esseri umani - identità di composizione e decomposizione e ricomposizione dell’universo - sempre in concorso con l’ossigeno: vita e morte, spegnimento e accensione, routine e fuoco. Le tenebre si alternano al giorno, senza fine.









Questo di Guiguet è un corridoio multiverso che certo batte il tempo dell’inferno, la modernità e l’AIDS, il precariato e l’intermittenza (sia della natura umana costitutivamente indecisa e indeterminata che del lavoro flessibile, che il capitalismo postfordista ha messo entrambe in produzione), ma che, nondimeno, fendendo la dura realtà dei fatti, contagiati e contagiosi, recupera una costellazione di senso, una salute, in cui si inscrive un altro tempo, quello delle storie parallele, reali e inventate, che allargano e decentrano il mondo declinante qui e ora, precipitato in un ammasso di rottami. L’eternità attraverso gli altri e nell’eterno ritorno. Guiguet gioca con Benjamin, Nietzsche, Blanqui: i suoi passeggeri ritornano ma sono sempre esposti a questo lucreziano clinamen dell’avventura e dell’incontro, eternamente ritornano a questa possibilità della biforcazione attraverso le storie degli altri, astri di un universo che vuole sfuggire all’oppressione: i passeggeri, come i centri di forza nietzscheani o le monadi leibniziane, sono numericamente limitati, eppure, attraverso gli altri, sono prospetticamente infiniti, si slanciano attraverso gli altri contestando il buon ordine del mondo dissestato (Fugitive beauté/Dont le regard m’a fait soudainement renaître, C.B.). È l’eternità del desiderio che sgorga dalla disperazione di questa modernità patologica. Che ha ormai da fare il mondo sotto il cielo? (Baudelaire). Del resto: il mondo esiste, dura (Baudelaire). E dura nelle sue catastrofi. E nelle fluttuazioni, del tram e dei suoi passeggeri. La luce si spegne ma due bocche si sigillano l’una sull’altra: il freddo della morte e la dolcezza del cuore.


Les passagers è una durata delle passioni e uno sguardo-viatico gettato sui neri feretri che attraversano l’anima della Città e sulla Speranza che ostinatamente sbatte le sue ali contro un Tempo che ingoia sempre più ogni minuto che passa. È la Verità di questa immagine carica di presente fino a frantumarsi, intensa, eternamente insistente, traccia della morte, di opposizioni e avvolgimenti, attese e speranze e slanci. Les passagers è la voce dell’uomo.


 

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